Maria Gabriella Mariani, libro e pianoforte: la compositrice che scrive musica e libri. “Così la memoria può diventare strumento per il futuro”
Maria Gabriella Mariani è pianista, compositrice e scrittrice. Molisana, ha ottenuto cinque Global Music Awards negli Stati Uniti, e ha un intenso carnet da solista e in formazioni da camera. Incide per Da Vinci Classics. I suoi ultimi cd sono stati inseriti nella playlist Spotify delle migliori uscite internazionali.
Maria Gabriella Mariani, una natura duplice: compositrice e scrittrice.
Fino al 2008 ho fatto solo la pianista, poi ho preso a scrivere: per bisogno interiore, credo. Iniziai un romanzo, e l’editore mi spinse a trasporne in musica i personaggi: da lì cominciò tutto. Mi sono accorta che scrittura narrativa e spartito dovevano andare in tandem, fluire l’una nell’altro in una sorta di circolarità liberatoria.
Quali tematiche la orientano quando scrive libri e musiche?
All’inizio erano tematiche astratte, estemporanee, con personaggi senza spazio né tempo. Mi sembrò poi che ciò non potesse soddisfare il lettore. C’è in me un grande desiderio di comunicare, ho mutato dunque l’angolazione, e i personaggi si sono fatti più concreti, verosimili: non più metafore, allegorie. Si riferiscono anche alla mia infanzia, al ricordo, quello del Molise, la mia terra. È come se mi volessi impossessare di me stessa.
Corrispondenze legano scritti e musiche: I racconti di Dora e Lucia (2021) con Kinderliana, ad esempio.
Dora e Lucia sono due ragazzine: la nonna Flora racconta loro delle storie. E io sono un po’ l’una un po’ l’altra, ma soprattutto Dora, che, sul filo della memoria, ritorna al passato, alle sofferenze, e attua un percorso di crescita. Kinderliana si nutre anch’essa di ricordi: man mano che procede, la musica “cresce” in difficoltà tecniche.
Cos’è la memoria?
Non è ripiegamento, ma strumento per il futuro. Perché metabolizza le mancanze, le colma, se possibile.
Le sue musiche sono intessute di personaggi, come i romanzi. Penso a Hologram e al romanzo Ologramma.
La scrittura talvolta è stata dettata da criticità. Ologramma (2019) è caduto in un periodo difficile per via della depressione: con le parole e con i suoni ho voluto raccontare questo momento, per esorcizzarlo. Hologram ha un tema e 17 variazioni. Ho tenuto presenti le variazioni di Beethoven, il loro senso di “superamento”. Ho deciso di comunicare a tanti le mie difficoltà, e sottolineare che è importante esprimerle.
Cosa cerca nei personaggi di Ologramma?
In un certo senso mi astraggo e scruto questi 17 personaggi (7 nel romanzo). Due di essi non hanno nome. Uno continuerà a vivere, l’altro no. Danno soluzioni diverse alla loro vita. Osservo come superano le asprezze. È una sorta di caleidoscopio, nel quale mi rispecchio quando avverto ansia o abbattimento.
La Variazione come dispositivo tecnico e come fatto estetico-psicologico?
Certo, in musica abbiamo un “tema”, che già esiste, al quale devi rifarti per variarlo: non lo puoi ignorare. Pure il momento depressivo va elaborato in vari modi. Ma la soluzione non è acquisita per sempre. Infatti il finale di Hologram è libero: ognuno può inventare la propria Variazione, come vuole.
In concerto abbina musiche Sue a quelle di grandi autori. Perché? propone dei modelli? si colloca alla loro altezza?
Tutt’al contrario (ride). Costruisco un progetto, un percorso omogeneo, che abbia un senso contenutistico. In Fairy tales (2019) c’è il mondo dell’infanzia di Debussy e Schumann; in Visions (2021) ci sono impressioni, suggestioni di Debussy, Poulenc, Prokof’ev.
Non si spinge fino alle frontiere più ardite del comporre, si tiene salda al linguaggio tonale.
Rispetto le Avanguardie. Ma per me l’armonia tonale è come la grammatica nel parlato. Mi consente di comunicare meglio. Oggi c’è grande spazio per la sperimentazione, io mi attesto su una linea più tradizionale: mi sembra che il pubblico recepisca più facilmente il mio messaggio.
Ha studiato con Aldo Tramma e Aldo Ciccolini. Cosa riconosce all’uno e l’altro?
Tramma significa “scuola di Vincenzo Vitale”: mi ha dato le basi, la tecnica. Di ciò gli sarò sempre grata. A Ciccolini devo “la musica”. L’ho seguito per tre anni, l’ho incontrato poi di nuovo. I suoi insegnamenti sono sempre presenti. È questa la grandezza dell’insegnare: non si esaurisce nel rapporto quotidiano. A volte penso: cosa direbbero Tramma o Ciccolini di come sto interpretando…
C’è anche Martha Argerich nella sua formazione.
Ho lavorato con lei soprattutto sui Romantici. Mi ha stimolato verso l’improvvisazione. Già da ragazza improvvisavo. Lo facevo perfino sulle canzoni dello Zecchino d’oro (ride). Lei però mi spinse a improvvisare anche in concerto.
Lei lavora in Italia e all’estero. Che differenze nota nei vari pubblici?
Rispondo solo a titolo personale e per campioni. In Germania il pubblico sembrerebbe freddo, ma non lo è: alla fine applaude con foga. È aperto, ama molto la musica pianistica e sinfonica. Quello milanese è curioso, caloroso, ha molta voglia di scoprire i percorsi narrativi che offro. Il napoletano mi conosce meno: a Napoli mi si chiede di suonare autori dell’Ottocento, meno le musiche contemporanee.
Come ha vissuto la pandemia?
È stato un momento di silenzio e riflessione. Sto correggendo le bozze di un libro, L’egoismo dei deboli. Ossia quelli fragili, feriti dalla vita, che rispondono con l’egoismo, loro unica arma. Al libro si collegano tre Novellette musicali, sul modello di Schumann. A breve uscirà anche Nené Waltz: farà parte di una carrellata di valzer che copre due secoli.
Suo marito è violinista. La sostiene in questo intenso lavoro?
Sì, e gli sono grata. Portiamo avanti insieme molti progetti culturali. È bello così, non trova?
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