Tunisia, la democrazia tradita: oggi il referendum sulla nuova Costituzione
Il presidente Saied se la è cucita addosso per legittimare la sua presa di potere
Per noi abitati da un servilismo indefettibile e ottuso verso i nostri (presunti) interessi occidentali oggi è giorno da segnare sul calendario: salvo impossibili sorprese si ricompone la vecchia, a noi cara, obbediente Tunisia dei tempi di Ben Ali, che i guastafeste della rivoluzione del 2011 si illudevano, tapini, di aver mandato in pezzi per sempre. Ritorna grazie al metodo classico degli arruffapopoli autoritari, ovvero un referendum che deve sancire una nuova Costituzione, la figura del raiss, del capo, della guida suprema, del super-presidente. Maledizione che azzoppa la crescita civile e politica degli arabi dal tempo dei califfi e dei sultani; ma che noi, democratici europei molto sbadati quando siamo in trasferta, giudichiamo perfetta per stringer mani di “amici fidati’’ sulla quarta sponda, dall’Egitto all’Algeria alla Libia.
Kais Saied golpista in giacca e cravatta, sussiegoso, saccente “in utroque iure’’, completa con una Carta reazionaria e con pennellate teocratico-populiste il percorso autoritario avviato il 25 luglio del 2021 quando con il pretesto dell’emergenza sanitaria, ovvero il Covid, sospese il parlamento e si attribuì i pieni i poteri.
Rischia di sparire miseramente l’eccezione tunisina, la più tenace e fragile delle esperienze democratiche sopravvissute stentatamente alla grande illusione rivoluzionaria e giovanile del 2011. Si tirerà nelle cancellerie democratiche un gran sospiro di sollievo e partiranno subito le felicitazioni di rito: anche a Tunisi finalmente qualcuno che garantirà ordine e affidabilità.
Di una cosa non si può accusare Saied, di tartuferia. Il suo credo esposto teorizzato applicato è l’avversione furibonda al sistema parlamentare considerato come lo strumento diabolico di tutti i mali, le perversioni, le piaghe di cui il popolo, umile e bisognoso di un dotto pastore, soffre. Teorizzazione che deve esser sfuggita agli illustri giuristi della Sapienza romana (o forse avevano già capito tutto?), che gli hanno tributato un paradossale e mai ritirato dottorato honoris causa in diritto romano e democratico!
Lui risponde solo a «dio, alla Storia e al popolo» che evidentemente non possono che esser, tutti e tre, d’accordo con lui. Il percorso di Saied verso i pieni poteri merita di esser studiato con attenzione e preoccupazione: è la versione modernizzata della tecnica per il colpo di Stato soffice, con cui si affossa una democrazia smangiata dalle approssimazioni e la si converte in tirannide. È un modello che purtroppo rischia di aver imitatori anche in sistemi politici ben più solidi di quello tunisino, una tentazione che occhieggia anche in Europa dove oltre che ai populisti di grana più o meno grossolana abbondano aspiranti salvatori della patria, uomini o omini provvidenziali, sostenuti di malaccorti caudatari e agit prop specializzati nella denigrazione per filo e per segno di partiti e parlamenti, ridotti a forfora e cascame. In guardia: il metodo tunisino è tutt’altro che stramberia esotica.
Saied non ha fatto altro che indirizzare la rabbia popolare contro i partiti e il parlamento che hanno mal amministrato il dopo dittatura. Purtroppo compito facile visto come, in un abbaio confuso, tra corruzione e inefficienza, hanno trascinato il Paese nel disastro economico e nel caos sociale. Tutti colpevoli: gli islamisti di Hennadha, convertitisi dal terrorismo allo sfruttamento di poltrone e poltroncine, al partito in ascesa dei nostalgici di Ben Ali (un sintomo che doveva allarmare, quando si comincia dire si stava meglio quando si stava peggio la controrivoluzione è vicina); a una sinistra in emorragia di consensi e di idee.
Il presidente ha chiesto al popolo di scendere in piazza per rafforzare il solo capace di porre riparo alle ruberie e ai particolarismi egoisti degli eletti. I suo golpe dello scorso anno è stato salutato infatti da manifestazioni d’entusiasmo molto fitte e in gran parte spontanee.
Sparute le proteste di chi aveva subito compreso che, con tutti i limiti e la mediocrità di coloro che la incarnano spesso immeritatamente, i partiti sono la democrazia. Chi si annuncia come il profeta di «una nuova era nella Storia» chiedendo deleghe in bianco cavalca la tirannide.
In questo anno il presidente ha svitato, approfittando della solitudine del regime di eccezione, tutti i bulloni che tengono insieme la fondamentale divisione dei poteri. Manca solo una sanzione costituzionale che dovrebbe ottenere oggi. Una Costituzione che si è cucita addosso da solo, dove gli è garantita una totale irresponsabilità, la possibilità di prolungare il mandato e viene creato un nuovo ramo del parlamento, l’assemblea delle regioni. Sarà il contenitore perfetto della sua nuova obbedientissima élite che dovrà applaudire il potere monocratico.
Il popolo più sensibile all’adescamento di Saied il salvatore è formato dai dimenticati delle regioni dell’interno, afflitte da una eterna miseria, serbatoio di giovani senza futuro. Lo detestano e ne denunciano le trame gli intellettuali, i magistrati (ne ha revocati senza appello 57, hanno fatto inutilmente sciopero per tre settimane), i sindacalisti, i sempre devoti alla mobilitazione democratica, reperibili sulla costa, un’altra Tunisia degna ma purtroppo minoritaria.
Undici anni dopo la rivoluzione la speranza che non schiumi di nuovo l’autocrazia paternalistica alla ben ali è affidata alla situazione economica, La Tunisia nonostante il salvatore della patria è in fallimento, il “rating’’ è pari a quello di Ucraina e Sri lanka . Non ci sono i soldi per pagare gli stipendi alla armata burocratica dei 700 mila dipendenti pubblici. E soprattutto c’è il fattore farina. La banca mondiale ha già concesso un prestito di 130 milioni di dollari per comprare grano tenero. Ne occorrono altri 370 per le scorte di quest’anno. Il Fondo monetario, la sigla più odiata nel mondo non occidentale, valuta. Provate a indovinare: a Saied non dirà di no. Nel 2011 la rivolta popolare che noi deformammo nel melenso slogan di «rivoluzione dei gelsomini» scoppiò perché la gente aveva fame.