Il chirurgo lascia l’ospedale e diventa medico di famiglia: «Ho quasi 60 anni, lascio l’ospedale per riuscire a stare più vicino ai pazienti»
Sul citofono dello studio medico c’è ancora il cognome del suo predecessore. Attaccato al cancelletto, un foglio sgualcito recita: «Dopo tanto clamore, il dottore andrà in pensione il 30 giugno». «Doveva ritirarsi a fine 2021 – spiega Andrea Ragazzoni – ha ricevuto diversi inviti a restare per altri sei mesi. Tra feste natalizie e Covid, i pazienti non potevano rimanere soli. Dà l’idea della carenza di medici che c’è al momento».
Nato a Pavia, 57 anni, dal 4 luglio Ragazzoni è diventato medico di famiglia a Cava Manara, dopo una carriera di trent’anni da chirurgo vascolare. Dal ’92 alla Cittadella Sociale di Pieve del Cairo, dal 2010 all’istituto di cura Città di Pavia, ospedale del gruppo San Donato. Se gli chiedi di rimorsi o pentimenti risponde così: «Sì, mi sono pentito di non aver percorso prima questa strada. È l’unico cruccio che ho al momento».
Scelta controcorrente
In un contesto carente di medici di base, lasciare la sala operatoria per lavorare in studio è una decisione in controtendenza. In provincia servirebbero altri 60 dottori secondo il bando regionale chiuso a luglio, ma alla chiamata hanno risposto solo in nove. «Io accarezzavo l’idea già da qualche anno», racconta Ragazzoni, con le mani sulla tastiera mentre prepara la ricetta per uno dei suoi 1.300 pazienti. «La convinzione è esplosa durante il lockdown: mi sono reso conto che la chirurgia è bella, utile, ma spesso cura la malattia e non la persona. La cosa che ha cominciato a starmi un po’ stretta. Diciamo pure che, alla mia età, il fascino della vita da chirurgo ha meno influenza. Così mi sono orientato verso la medicina di base: sentivo il bisogno di un’attenzione diversa nei confronti del paziente, di contatto con la gente». Dai ferri chirurgici al lettino per le visite, il cambio di vita (e di lavoro) è netto. Ragazzoni ne snocciola i numeri: «Visito in media sei pazienti ogni ora. Alle 8 accendo il telefono, comincio a richiamare chi mi ha cercato per un consulto. Rispondo ai messaggi e mi occupo delle ricette per i farmaci quotidiani, come quelli per il diabete. Insomma, la strategia è tenere la parte burocratica fuori dall’orario di visita: l’attività del medico di base non si esaurisce con la chiusura dell’ambulatorio. In questo la tecnologia aiuta, ma potrebbe contribuire di più. C’è ancora una certa richiesta di certificati di malattia per Covid: una decina la settimana. Nulla di questo lavoro è ancora diventato una routine, mi piace e mi diverte». Ma la medicina generale sembra scoraggiare molti aspiranti dottori che, posti al bivio tra specialità e formazione da dottori di famiglia, non hanno dubbi su percorso da intraprendere. Ragazzoni, che ha sperimentato entrambi i mondi, se lo spiega così: «Secondo me i neolaureati hanno molti sogni in tasca: si orientano fin da subito verso la carriera da specialista, ambendo a ospedali prestigiosi, magari alla cura di malattie poco frequenti».
La carenza
Anche il percorso formativo giocherebbe un ruolo nel tenere distanti le “nuove leve”: «Non è equiparato alla specialità universitaria, nemmeno dal punto di vista economico. A meno di un amore sviscerato verso la disciplina, perché scegliere il corso triennale quando con un anno in più si diventa specialisti ( corsi che di solito durano quattro anni, ndr) peraltro con una borsa di studio quasi doppia rispetto a quella da dottore in formazione? Sarò sincero, se i titoli che ho non mi avessero dato modo di esercitare, prima di fare il corso di formazione da medico di base mi sarei fermato a pensarci un attimo. A queste condizioni, è possibile che chi vuole fare il medico generale venga scoraggiato».