Il Carso che brucia: quel museo naturale della Memoria mutilato dalle fiamme
TRIESTE C’è una foto scattata poco dopo l’alba del 4 giugno 1917 che ritrae i militari del Regio esercito italiano asserragliati nella galleria ferroviaria nei pressi del monte Hermada. È appena fallito il tentativo, l’ennesimo, di prendere il monte a quattro cime, ultimo baluardo difensivo imperiale prima di Trieste. Nei giorni precedenti gli italiani, a costo di centinaia tra morti e feriti, avevano conquistato quota 146 del Flondar, la sentinella dell’Hermada.
Una petraia senza riparo, i pochi alberi presenti prima del conflitto spazzati dalle granate. La decima battaglia dell’Isonzo è un massacro. L’Hermada resterà inviolato.
[[ge:gnn:ilpiccolo:5478147]]
Quella fotografia in bianco e nero di oltre un secolo fa oggi si colora del rosso fuoco che si è scatenato lungo la cordigliera carsica, dall’Hermada al San Michele, teatro delle tragiche spallate cadorniane sulla fronte della Terza Armata. La devastazione provocata dalle fiamme trova un’unica consolazione nella consapevolezza che non ci sono state vittime e che le case sono state salvate grazie all’immenso apparato difensivo schierato contro il nemico per eccellenza dell’uomo.
Il danno ambientale inestimabile resta la priorità nei progetti di salvaguardia e di prevenzione, ma c’è un’altra profonda ustione impressa dalle fiamme. La tetra cadenza degli scoppi delle granate e dei pezzi inesplosi della Grande Guerra ha scandito lo sgretolarsi del museo della memoria che è il nostro Carso. Flondar, Arupacupa (dove si ferì Mussolini armeggiando con la torpedine bettica), Kremenjak, abisso Bonetti sul Varda, Kucelj, Brestovec, Nad Logom, dosso Faiti, Golicevnik, San Michele sono alcune delle cime divorate o sfiorate dagli incendi.
[[ge:gnn:ilpiccolo:5472063]]
Sono nomi di monti che hanno inghiottito nella loro poca terra migliaia di giovani durante il conflitto. Sono vette modeste nell’altitudine, ma superbe nella storia che riflettono. Su queste cime, migliaia di anni fa, si sviluppò la prima forma di società umana organizzata nei castellieri costruiti con la pietra che connota il Carso. E sono vette che hanno visto scorrere il Frigido, l’antico Vipacco, per alcuni forse l’Isonzo tanto che è certo il suo antico allungarsi verso il mare alle spalle della Rocca di Monfalcone, laddove oggi il Carso ferito si specchia nei laghetti di Pietrarossa e di Sablici, laddove affiora la cristallina acqua del Locovaz che va a sfociare nell’antico Lacus Timavi.
[[ge:gnn:ilpiccolo:5479641]]
Acqua che fino ai primi del ’900 ha alimentato il molino di località Moschenizza, ai piedi della montagnola sacrificata negli anni ’60 per la grande viabilità verso Trieste. Un fuoco che, beffardo, non ha risparmiato nemmeno il San Michele proprio nei giorni in cui ricorre l’anniversario di uno dei più spaventosi fatti d’arma: l’attacco magiaro con i gas e l’uso delle mazze per finire i “nemici”. Forse ha proprio ragione Giovannino Guareschi quando fa dire a don Camillo che «la storia non la fanno gli uomini: gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia».