Josh O'Connor: «il cinema, per me, è una questione di fede»
È bello, con il viso punteggiato di lentiggini e un grande sorriso. Di fronte alle domande si pone in modo neutrale, come un uomo di buon umore. Gli sarà servito, da inglese, ritrovandosi a interpretare un’«altezza reale», con evidenti rischi da correre essendo il personaggio ancora in vita. Josh O’Connor ha dimostrato di amare le sfide, e ha accettato di diventare il principe Carlo in The Crown. E oltre ad averlo interpretato in modo impeccabile, ha persino «difeso» il suo Carlo sul set, perché per copione volevano troppo spesso zittirlo. Trentun’anni, figlio di mezzo di tre fratelli, è cresciuto a Cheltenham, Gloucestershire, con padre insegnante e madre ostetrica. Josh ha già lavorato con il regista Luca Guadagnino in uno spot per Aston Martin, in Sicilia, e ha detto di ammirare anche Christopher Nolan, di cui accetterebbe subito una proposta. Nel frattempo è sul set diretto da Alice Rohrwacher, nel Lazio, a girare il film La chimera. «Io sono Arthur, un archeologo inglese coinvolto in un traffico clandestino di reperti» anticipa, ma non aggiunge altro per i soliti motivi di riservatezza. Intanto in questi giorni è al cinema con Secret Love di Eva Husson, ambientato nel 1924. Qui è Paul, il figlio di una famiglia di nobili che su di sé porta vari e dolorosi pesi: i fratelli morti in guerra, un matrimonio imminente che non vorrebbe e soprattutto l’amore segreto per Jane (Odessa Young), domestica dei vicini di casa (Colin Firth e Olivia Colman). Mentre lo si guarda sullo schermo, nudo per i tre quarti del tempo, fa sorridere pensare che voleva darsi al rugby, credendo di non avere la stoffa per la recitazione... E invece ha già vinto un mucchio di premi, dal Golden Globe agli Emmy. Per sfuggire agli inconvenienti della fama che lo ha colto alla sprovvista è scappato a New York, dove ha coltivato una sua (insospettabile) passione. Racconta tutto a Panorama in una tarda mattinata sulla Costa Azzurra.
Dopo il principe Carlo, il Paul di Secret Love è un altro uomo «costretto» dal suo status sociale: sta diventando un vizio, il suo?
Oggi esiste un nuovo mondo di artiste che non scrivono più solo per le donne, ma per un pubblico che include anche gli uomini. Eva Husson, la regista, fa parte di queste autrici, e il mio personaggio corrisponde chiaramente a una nuova visione, quella di chi sta riconsiderando le cose rispetto al ruolo del maschio nel mondo.
È un po’ per dire da dove arriva, l’uomo?
Mi interessa quel senso di colpa che resta in chi sopravvive a una guerra, in questo caso, e tutto quel carico di obblighi sociali cui oggi nemmeno pensiamo più. Osservare da dove veniamo è fondamentaleper capire dove vogliamo andare e quanto più gentili dobbiamo essere. Paul e Jane, la donna che ama, devono affrontare una divisione di classe. Non solo, ci sono anche le conseguenze della Prima guerra mondiale, in cui tantissimi giovani sono morti lasciando i genitori e le famiglie in lutto ad affrontare una perdita devastante. Quest’uomo deve gestire un dolore che va compreso.
È vero che lei ha una passione per la ceramica?
Da sempre. Ho frequentato corsi a New York, e voglio ancora essere un ceramista, anche adesso che sono diventato un attore. In particolare, un ceramista funzionale (figura specializzata in prodotti ad alta tecnologia, ndr)».
Da dove viene questo amore?
Mia nonna realizzava sculture con la ceramica ed era molto brava. Io sono un grande fan di Ian Godfrey e sono molto fortunato ad avere un paio di suoi pezzi. Mi piacciono molto anche «vasai» come Lucie Rie, Hans Coper e Richard Batterham. Poi c’è Akiko Hirai, una giapponese davvero straordinaria che realizza vasi lunari.
Ovvero?
Sono fatti per metà di ceramica e per metà di porcellana. Bellissimi.
Lei ha sostenuto il laburista Jeremy Corbyn alle ultime elezioni…
Sono un repubblicano, ma del tipo moderato che non agita i pugni. Sono sempre stato disinteressato alla monarchia. Per me i suoi membri esistevano, erano lì, e non mi infastidivano. In un certo senso hanno bilanciato le cose, sono stati bravi nel farci vivere in modo da poterli anche ignorare.
È vero che l’hanno dovuta convincere a fare un provino per interpretare il principe Carlo?
Una parte di me ha pensato: oltre al fatto che è un uomo ricco ed elegante, in lui non c’è sostanza, non c’è succo... Poi gli sceneggiatori mi hanno spinto a focalizzarmi sulla mancanza di uno scopo nella vita di un uomo erede al trono, il cui unico compito è quello di non morire. È un taglio significativo.
Il luogo in cui ha trascorso più tempo, da ragazzo?
Un centro chiamato Axiom. Era un vecchio edificio di mattoni rossi, con biblioteca e un caffè al piano terra, una sala concerti al piano superiore, lezioni d’arte all’ultimo piano. Tutti i ragazzi del posto lo frequentavano, ci abbiamo fatto pittura, ceramica. Ha chiuso agli inizi degli anni Novanta, avevo 11 anni.
E poi cosa è successo?
Ricordo ancora la sensazione di perdita: dopo la chiusura del centro artistico molti miei coetanei si sono persi. C’è stato un gruppo che si è riunito e ha presentato una proposta al consiglio, ma era troppo tardi, lo avevano già venduto per trasformarlo in costosi appartamenti.
Come ci si sente, quando si cresce in provincia?
È lì che inizia tutto. A 18 anni ho lasciato la scuola e ho ottenuto un posto al corso universitario di recitazione a Bristol, mi sembrava di essere in un luogo pazzesco, enorme, una dimensione finalmente metropolitana. Poi è venuta Londra, ma non so se mi sia mai andata davvero a genio.
Le piattaforme di streaming le hanno dato una fama planetaria, e il cinema ha vissuto una grave crisi per il lockdown: da spettatore come giudica queste due esperienze?
Per quanto mi riguarda non c’è nulla che possa sostituire un’esperienza di gruppo come quella che si fa in un cinema. Un gruppo di estranei in una stanza, appesi a ogni parola pronunciata, che provano tristezza, gioia e speranza allo stesso tempo…