Valentino Bompiani e gli amici triestini: «Joyce un puritano, Saba sacerdotale»
TRIESTE «È tutto cultura e si direbbe non contenga altro dentro di sé. Ma qualche segno avverte che non è vero: forse legge per non pensarci. Si agita sulla sedia come se avesse la coda». Così scriveva nel 1945 Valentino Bompiani a proposito di Bobi Bazlen, un giudizio che dimostra come avesse ben inquadrato l’inafferrabile e irrequieto bracco letterario triestino. Lo leggiamo in “Vita privata” (Ronzani, 310 pagine, 18 euro), primo volume di una trilogia autobiografica uscita per la prima volta nel 1971, dopo che Bompiani aveva venduto la casa editrice che aveva fondato.
Uomo di vasti e poliedrici orizzonti culturali, scrittore, commediografo e, soprattutto, grande editore, Valentino Bompiani (1898-1992) ha attraversato da protagonista una stagione cruciale della storia italiana del Novecento, tra fascismo e dopoguerra. In “Vita privata”, appaiono molti ritratti di autori. Alcuni sono fulminei, taglienti, come quello di Vittorini («Forte, ma d’apparenza fragile, si aveva sempre paura di romperlo»), altri sono più diffusi, come quello di Moravia, e si concludono con aneddoti che sintetizzano una vita: Moravia raccontava a Parise che una volta voleva morire per amore e Parise gli aveva domandato che cosa facesse per morire. «Andavo per la strada e non badavo alle macchine che mi venivano addosso», dice Moravia. Parise domanda se di mattino o di pomeriggio, e Moravia risponde: «Nel pomeriggio, si capisce, al mattino lavoro...».
Nel libro compaiono alcuni nomi del secolo d’oro della letteratura triestina. Ancora a proposito di Bazlen si legge: «Disposto a una più vasta, anche totale collaborazione: letture, segnalazioni, dirigere una collana. È straordinario, ha la memoria a bottoni. Si direbbe che ha letto tutto. Senza fermarsi? Gli dico di sì, subito, ma non si fermerà neppure con me; comincia a fiutare un compenso fisso; vuole un tanto al libro; poi si vedrà».
Il volume è fatto di note brevi, impressioni annotate a caldo, che dimostrano l’acume di Bompiani. In una occasione assiste, a Milano, a una conferenza di Svevo su “Joyce mercante di gerundi” e ne riporta alcuni passi. (“Alcune strade di Dublino si allungano nell’Ulisse per certe tortuosità della nostra Trieste. (…) Il pensiero di Freud non giunse a Joyce in tempo per guidarlo alla concezione dell’opera sua. (…) Mi disse: Psicanalisi? Ma se ne abbiamo bisogno teniamoci alla confessione»).
Accanto a Svevo c’era Carlo Linati, scrittore e grande amico di Joyce. A Linati, riporta Bompiani, l’irlandese aveva confidato che contro la pubblicazione dell’”Ulisse”, il “maledettissimo romanzaccione”, si stava preparando «un movimento da parte di puritani, imperialisti, inglesi, repubblicani irlandesi e cattolici: che alleanze. Io merito il Nobel per la Pace». Puritano, nota Bompiani, lo era anche Joyce. Svevo, riferisce l’editore, raccontava che un giorno l’amico lo riprese perché si era permesso uno scherzo un po’ audace. «Io, dichiarò Joyce, non dico mai di codeste cose benché ne scriva».
Di Saba l’editore milanese non riporta incontri personali, il poeta viene tuttavia elencato tra altri scrittori definiti «in punta di penna, sacerdotali» cui Bompiani guarda con deferenza ironica. Si era nel 1930, agli albori della sua impresa editoriale, e il giovane Valentino, un po’ intimidito da tanti mostri sacri della letteratura con cui non aveva mai avuto a che fare, studiava un sistema per superare il sentimento di esclusione che lo pervadeva. «Mi pareva che per circolare con qualche agio in mezzo a quegli scrittori (tra gli altri Gadda, Malaparte, Montale, Prezzolini e appunto Saba, ndr) avrei dovuto essere sottonutrito, avere occhiali spessi, spalle un po’ curve, tasche piene di giornaletti, un libro di Michelstaedter sotto il braccio, la cadenza dialettale, una qualsiasi, meglio veneta, e qualche impuntatura nel parlare. Mi ci sarebbe voluta anche una compagna adeguata, rauca, con gli occhi spiritati e un po’ d’acne sulla fronte».
Come si vede Bompiani sapeva come prendersi amabilmente gioco dell’intellighenzia culturale di allora, che doveva apparirgli come una banda di adorabili stravaganti. Ma Bompiani, affermava Umberto Eco, era un editore che, oltre che i libri, amava gli autori: «Può sembrare banale ma non lo è - scriveva l’autore del Nome della rosa, best seller Bompiani - in un’epoca in cui ci sono nel mondo editori che non amano neppure i libri».