La ricerca della felicità alle urne
Volendo ricostruire un’educazione sentimental-elettorale, ciascuno la propria, occorre intendersi intanto sulla differenza che passa fra l’avere dato il primo bacio sotto un governo Scelba e averlo dato sotto un governo Draghi. Sul peso che può esercitare, nella vita di coppia, il lieve smottamento che da un governo Fanfani porta a un governo Tambroni. Magari nessuno. Ma, in ogni caso, non c’entra solo l’anagrafe: chi firma questo articolo, per dire, è nato alle battute finali del governo Fanfani V, a ridosso del governo Craxi I; e ha passato l’infanzia sotto i governi Craxi II, Fanfani VI, Goria, De Mita, Andreotti VI, Andreotti VII. Fino a un certo punto, questi sono stati puri nomi. Sfioravano le orecchie, volavano via. O erano facce livide e grinzose disegnate da Forattini, facce «molli e un poco informi, dove non si distinguevano bene i lineamenti: il naso si scioglieva tra le guance… Stringevano fiaccamente la mano… le loro parole si perdevano in un bisbiglio materno e rassicurante». Così nel 1996 scriveva Pietro Citati, lo scrittore e critico appena scomparso.
Ma è chiaro che - al momento di innamorarsi sul serio - trovarmi sotto un governo Prodi mi pareva rientrasse in una cabala complessivamente fortunata: i governi di sinistra, nel corso della mia vita cosciente, sono caduti così in fretta da non lasciarmi il tempo di fare esperienze decisive. La vita restava la stessa all’inizio e alla fine delle legislature. E se tenete conto che, nel mio caso, al governo c’era Berlusconi mentre facevo l’esame di terza media e mentre concludevo quello di maturità, c’era Berlusconi quando mi hanno dato il foglio rosa e la patente e pure quando ho preso la laurea cosiddetta triennale, non è difficile concludere che si sia trattato di uno sconcertante fenomeno di berlusconizzazione di una porzione consistente della mia biografia. A quanto pare, un processo non ancora concluso. Non è detto.
I quasi settanta governi che hanno sbriciolato la compattezza della nostra storia repubblicana - di poco inferiori, per numero, agli anni della sua durata - offrono uno straordinario materiale narrativo. Non solo nei termini più evidenti dell’ingarbugliata trama politica, ma direi in quelli - forse più affascinanti e imprevedibili - delle nostre trame emotive. I vecchi maestri della commedia (Risi, Monicelli, Scola) sapevano mettere a fuoco, con una grazia ruvida e maestosa, quell’infiltrazione in atto (obiettivamente molto novecentesca) che porta i fatti politici a condizionare i fatti propri; riuscivano a far sentire dentro un’incazzatura, un corteggiamento estenuato o una scopata, un clima istituzionale. Ma penso anche ai ritagli di giornale di Nanni Moretti in Aprile, al modo in cui una campagna elettorale e le sue conseguenze invadono il salotto di casa, e l’euforia per la nascita di un figlio si confonde con quella della vittoria dell’Ulivo nel ’96. E poi c’è il Paolo Virzì di Ferie d’agosto, con i berlusconiani che, in vacanza, si ritrovano per vicini di casa gli intellettuali di sinistra: «La verità è che nun ce state a capì più un cazzo!», dice l’araldo dei primi ai secondi. Meraviglioso: anche solo perché mette in dialettica, anzi in conflitto, elettori tutto fuorché apatici.
Al contrario, quelli che Letta si preoccupa di non disturbare sotto l’ombrellone («Non romperemo i coglioni!») sono già piuttosto sfiancati e abbattuti. Da anni. E temo che non avrebbero l’energia dimostrata, nel film di Virzì, dal personaggio interpretato da Silvio Orlando: «Quale malgoverno? Quale consociativismo? Fino alla Liberazione ci hanno sbattuto in galera… I nostri spazi ce li siamo conquistati e difesi con le nostre forze, con il nostro talento, le nostre intelligenze». Così risponde il berlusconiano con il volto di Ennio Fantastichini, che non resta zitto, reagisce ancora. Dichiarandosi contento, felice. Lo è davvero? Non importa: ha il coraggio di dirlo.
In questo insolito capitolo balneare aggiunto alla storia delle campagne elettorali repubblicane - storia fatta di giacche e anche di ombrelli; mai, finora, di costumi da bagno - vedo solo elettori distratti, disincantati, nervosi - e in un modo diverso da quello rappresentato nel film di Virzì. Un’apatia scontenta, da incubo di una notte di mezza estate. Che è questo frullato del già visto e del peggio. Le settimane strettissime, vorticose che ci separano dal voto non aiuteranno a restare lucidi, a ben disporsi: arriveremo alle urne ancora accaldati, stizziti. Né Dio né Stalin getteranno l’occhio, come usavano fare settant’anni fa, e quanto a turarsi il naso è una pratica inveterata al punto che non se ne ricorda più l’origine (cinica); tutti i giaguari risultano non smacchiabili, mentre i leader si confrontano sulla rispettiva capacità di sudorazione e i manifesti elettorali galleggiano come carta straccia nelle acque reflue dei social. L’unica variabile impazzita sarebbe un sussulto di (lucido) entusiasmo dell’elettore. Di una lucidità diversa da quella evocata da José Saramago in un suo romanzo angosciante: lì i cittadini scelgono non di astenersi, ma di votare in massa scheda bianca. Il contrario di un voto felice.
Ecco, che c’entra la felicità con il voto? C’entra eccome. Solo che, ricostruendo l’educazione sentimental-elettorale (almeno la mia), ce la ritrovo a fatica. Saramago stesso, a proposito del voto sfiduciato dei suoi personaggi, parla dell’«ombra di un’antica felicità». Perché il voto, il diritto-dovere che tiene in piedi una democrazia, dovremmo pensarlo come un’espressione di rispetto di noi stessi, di autostima e - sì, non è assurdo - di felicità.
Una studiosa indiana di antropologia, Mukulika Banerjee, in un saggio sulla politica del suo Paese - circa 700 milioni di votanti - metteva in gioco la parola “entusiasmo”. Inserendo «l’importanza vitale del diritto al voto ai fini della dignità e della sopravvivenza» in una dimensione non solo politica e morale, ma anche emotiva, se non addirittura «sacrale». E se l’esercizio del voto - sostiene Banerjee - ha a che vedere con l’autostima dell’elettore, va considerato «uno strumento che consente di respingere potenziali attacchi a tale autostima» da parte dello Stato e delle forze politiche. È terribile doverlo riconoscere, ma l’autostima è sotto le scarpe. E l’idea di un elettorato felice è un capitolo impossibile, fuori tema, di questo romanzo elettorale afoso e sconfortante, scritto con un inchiostro di pessima qualità, nero come il nostro umore.