Viaggio nel Vallone aggredito dalle fiamme fra le sentinelle verdi che resistono in piedi

“Da Gorizia per andare a Trieste si imbocca la strada statale n.55, che corre verso sud, ampia e ben asfaltata, tra un duplice filare di cipressi, con vista in avanti delle tondeggianti alture del Dosso Faiti e del San Michele. Il confine si svolge a sinistra, a poche centinaia di metri, talvolta anche meno”. Così la guida del Touring Club del 1955 che dedica alla “nuova” Venezia Giulia alcune pagine ricche di notizie storiche.

Oggi, 67 anni dopo, quelle pagine aiutano a tirare un sospiro di sollievo nonostante la devastazione del fuoco. Ieri, dopo quasi due settimane di lotta contro le fiamme, la statale 55 dell’Isonzo è stata riaperta al traffico; non il primo tratto, di tre chilometri, da San Giovanni di Duino a Sablici, di competenza di Fvg Strade.

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Ripercorrere la strada del Vallone, nella solitudine di un primo pomeriggio torrido, è stato come riappropriarsi di un mondo che ci appartiene e che pareva perduto.

Nell’avanzata verso Gorizia e nel ritorno verso Monfalcone Lisert abbiamo ritrovato le fedeli e svettanti sentinelle verdi che da quasi un secolo indicano la Via Sacra: i cipressi. Quelli citati dalla guida del ’55, quelli messi a dimora negli anni Trenta del Novecento nell’ambito di un più ampio progetto di consacrazione dei luoghi del sacrificio umano della Grande Guerra.

I cipressi sono sopravvissuti al fuoco, anche taluni a fianco di altri alberi inceneriti. Quasi che anche le fiamme più furiose avessero una qualche forma di riverenza verso la sacralità di questi alberi.

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Sopravvissuti i cipressi anche non lontano dalla pendice dell’Arupacupa, sul versante che si affaccia verso la vecchia “curva della morte”, dopo Sablici. Qui il rogo è stato più devastante e qui l’ustione è molto evidente. Ieri erano al lavoro in quel punto squadre di tecnici per ripristinare la linea aerea dell’energia elettrica. Nel frattempo si è provveduto a bonificare il bosco aggredito dall’incendio. Su un mare nerastro di cenere spuntano le macchie chiare dei ceppi. È quanto resta di alberi alcuni dei quali forse hanno appena fatto in tempo a diventare centenari. Sopra Jamiano un’altra visione spettrale, il Kremenjak è una barriera nera prima dell’azzurro del cielo. Le chiome di certi alberi hanno assunto il colore dell’inverno della vita. Quanto ci piacerebbe veder scatenarsi un acquazzone generoso, solo per nutrire la speranza che questi alberi condannati possano almeno morire senza altri stenti.

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Sgomento, angoscia che nemmeno il frinire delle cicale attenua a Devetachi dove l’incendio sul Brestovec ha lambito le case dell’antico abitato, impreziosito dal cavalcavia, monumento d’arte muraria stradale della prima metà dell’Ottocento e dal sottopassaggio che secondo la tradizione permetteva ai locali di evitare la vicina gabella, giacché questa è zona di perenne confine. Il Brestovec sembra soffocare sotto la spessa coltre di cenere, quanto resta degli alberi sono spilli neri, spettrali conficcati un’arida terra bagnata solo dal sangue dei ragazzi della guerra. Si notano appena i tetti in coppo delle case della frazione di Cotici, sembrano zampilli incandescenti in un mare nero di lava. Qui il fronte dell’incendio è stato molto ampio. Lungo la strada, specialmente in direzione di Sablici, le rocce incenerite sembrano voler allungare i tentacoli verso le vetture in transitano; o sembrano voler chiedere aiuto, una spruzzata d’acqua, un gesto di attenzione. Suggestioni, solo suggestioni mentre il termometro dell’autovettura tocca i 37 gradi. Ribolle l’asfalto, l’odore di legno bruciato non è solo una sensazione. Sul rettilineo in discesa che porta a Gabria e a Rupa ancora resti del rogo. A destra sul crinale del Nad Logom, a sinistra sul Golicevnik.

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Ma come sostengono gli esperti dell’Università di Udine la vegetazione carsica non è andata del tutto perduta. Queste alture così cariche di miti e di storia sono dure a morire, anzi non moriranno mai. Castellieri, guerre, preistorici fiumi, antiche strade scavate nella roccia: questo è il Vallone. Nel viaggio di ritorno, che comincia da Merna, lo sguardo si allunga sul malconcio Dosso Faiti, dominato dal massiccio monumento ai caduti sloveni di tutte le guerre. Illeso il santuario di San Grado, che ha già tanto patito tra barbari e granate.

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A Palchisce scendiamo a Visentini, la frazione che si affaccia su un lago prosciugato ben prima degli scherzi con cui il clima oggi sta avvertendo l’uomo che il tempo sta per scadere. Nella discesa al Lisert lungo i tornanti di Sablici si chiude il sipario di questa prima volta sul Vallone del Carso incenerito ma non vinto. Prima o dopo un ciclamino rispunterà e avrà un profumo dolcissimo. —

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