Elsa Fornero: “Quei programmi in stile televendita che trasformano i politici in imbonitori”
Dalle tasse alle pensioni: le proposte della destra rischiano di affossare la finanza pubblica
Seguendo questi primi giorni di campagna elettorale, viene da domandarsi perché certi politici si ostinino a trattare i cittadini come sprovveduti acquirenti di balsami cura-tutto, di miracolose creme dimagranti o di attività finanziarie che promettono alti tassi di rendimento senza avere alcun presupposto per realizzarli (i cosiddetti titoli “spazzatura”). In effetti, certi programmi elettorali, pur non ancora definiti nei dettagli, non sono molto diversi dai prodotti offerti dagli imbonitori di fiere o televendite.
Prendete come esempio un comizio elettorale (in spiaggia? su un sito?) nel quale il politico di turno promette: a) la riduzione delle imposte (certo: per liberare le energie e il “genio creativo” del Paese, abbattere l’oppressione fiscale, aumentare consumi e investimenti, e perciò reddito e ricchezza); b) la “pace fiscale” (certo: per cancellare la “finzione” di cartelle esattoriali non più esigibili e ricostruire, attraverso l’ennesimo condono, un rapporto di maggior fiducia tra lo stato e i cittadini, premessa per il nobile obiettivo di una riduzione dell’evasione fiscale); c) un riposizionamento dell’età pensionabile al 2011 (certo: per favorire l’occupazione dei giovani, prima che il reddito di cittadinanza, naturalmente da abolire, riduca permanentemente il loro incentivo a cercare un lavoro).
Pure considerando la straordinaria calura estiva, un sano buon senso dovrebbe indurre a domandare: «Chi pagherà per tutto questo ben di Dio?» e a non accontentarsi della superficiale assicurazione di una prosperità magicamente generata dalle stesse misure. Come se l’economia italiana fosse una sorta di Bella Addormentata in attesa del bacio vivificatore derivante dalla combinazione di imposte più basse e di pensionamenti a età anch’esse più basse, e non invece un sistema complesso, in balia di eventi internazionali molto più grandi di noi e con problemi strutturali per troppo tempo ignorati.
Eppure quello delineato è sostanzialmente il programma economico della destra, dove la più prudente, Giorgia Meloni, chiede «ragionevolezza» nelle proposte, peraltro dimostrando di non esserne troppo fornita in tema di immigrazione, dove il “mantra” della difesa dei confini non viene in alcun modo collegato a ciò che avverrà nei prossimi decenni dentro a questi confini: una riduzione demografica e un processo di invecchiamento senza precedenti in tempi moderni.
Per essere “ragionevole”, il potenziale elettore dovrebbe domandarsi se queste proposte non affosseranno la finanza pubblica (il debito è già elevatissimo e i mercati finanziari non sono certo entusiasti dei titoli italiani) e se davvero indurranno reazioni “virtuose” nei lavoratori, negli investitori e nelle imprese, spingendoli a lavorare, a investire e ad assumere di più; e non piuttosto incoraggeranno l’evasione futura, giacché quella passata sarebbe, ancora una volta, condonata.
Prendiamo il caso della flat tax, o imposta ad aliquota fissa, della quale peraltro esistono a oggi tre varianti: quella più drastica di Salvini che poggia su un’aliquota unica del 15 per cento, finanziariamente non sostenibile (quando venne proposta, nel 2018, se ne stimò un costo a regime intorno ai cinquanta miliardi annui, non proprio bazzecole); quella di Berlusconi che fa perno sul 23 per cento e quindi dovrebbe costare assai meno; e infine quella, per l’appunto più ragionevole, di Meloni, che propende per un’introduzione parziale e graduale che si limiti a tassare ad aliquota unica gli incrementi di reddito da un anno all’altro.
Il tema è un classico della destra, e non soltanto in Italia, ma le sue varie applicazioni non hanno mai realmente funzionato. L’idea di base, nella sua formulazione essenziale, è di avere un fisco più semplice (obiettivo sacrosanto) e al tempo stesso una pressione fiscale inferiore. Questo secondo obiettivo è peraltro sostenibile solo a patto che trovi almeno parziale compensazione nella riduzione della spesa pubblica, che generalmente si identifica con la «riduzione degli sprechi», sempre propagandata ma mai realizzata giacché gli “sprechi” sono in generale le spese a favore di altri ed è quindi molto difficile trovare un consenso parlamentare.
Perché mai dovremmo aspettarci effetti benefici complessivi per l’economia dalla riduzione a una delle quattro aliquote oggi presenti nel nostro sistema fiscale - crescenti al crescere del reddito, secondo il criterio di progressività sancito dalla Costituzione - e dall’abbassamento dell’aliquota media? Dietro a questa impostazione si individua chiaramente l’idea del “fisco oppressore” che mortifica l’iniziativa privata, soffoca il desiderio di migliorare la propria condizione economica, ostacola il trasferimento ai figli di una ricchezza faticosamente accumulata. Da quest’idea nasce lo slogan delle misure in grado di “autofinanziarsi”, attraverso la generazione di maggiore reddito, che farà arrivare maggiori risorse nelle casse pubbliche nonostante riduzioni di aliquote e annessi condoni.
Alla concezione del “fisco oppressore” la società liberal democratica oppone quella di un fisco che tassa per finanziare i servizi pubblici, per rimediare alle lacune e imperfezioni del mercato privato nella generazione e nella distribuzione della ricchezza, per combattere povertà e diseguaglianza, per realizzare una società più aperta, coesa e meno ingiusta con prestazioni fondamentali di buona qualità, dalla scuola alla salute, garantite a tutti.
Liberare le energie individuali è lo slogan preferito dai sostenitori della flat tax, dimentichi che le ricchezze si costruiscono molto spesso attraverso posizioni dominanti, scarsa competizione, limitato riconoscimento del merito e negazione della parità di opportunità. Al di là dei tecnicismi, e anche degli squilibri di bilancio che inevitabilmente ne deriverebbero, dietro la proposta di flat tax si cela in definitiva la visione di una società individualista ed egoista, che vede nella soddisfazione personale la fondamentale spinta alla crescita, e poco si preoccupa dei divari sociali. Perché una proposta del genere dovrebbe entusiasmare i cittadini, la maggioranza dei quali è vittima di questi divari in crescita?