Yascha Mounk: “Il rischio è tornare indietro su immigrazione e diritti”
Il politologo: «In Italia la domanda di populismo è alta la leader FdI si dice atlantista, ma è legata al passato»
Da quando il suo best-seller, “Popolo vs Democrazia”, ha fotografato quel movimento anti-sistema di cui il nostro paese è stato laboratorio, il politologo americano di origine tedesca Yascha Mounk aggiunge tasselli al puzzle dei populismi e alla loro mutevole colorazione politica.
L’Italia si prepara a votare e i sondaggi puntano a destra. Che tipo di destra è quella capitanata da Giorgia Meloni?
«Lo scenario è confuso. Mi pare però che Berlusconi, il prototipo del populista di destra da cui discende il populismo moderno, appaia oggi a tratti quasi istituzionale. Lo stesso Salvini, il populista duro e puro, è stato un po’ disinnescato dagli anni al governo. A conti fatti, dentro alla attuale coalizione di destra, Giorgia Meloni è l’unica leader rimasta al fuori dalle responsabilità politiche e questo aiuta Fratelli d’Italia. Perché anche in Italia la domanda di populismo resta alta, il partito con la retorica più dura e meno compromesso con il governo è ancora quello che fa man bassa di consensi».
Bolle la polemica sulla fiamma che Giorgia Meloni mantiene nel simbolo del partito pur avendo condannato del fascismo «la privazione della democrazia». Che idea si è fatta?
«Ho l’impressione che da un lato la leader di Fratelli d’Italia voglia affermare il suo atlantismo e la sua legittimità, anche fingendosi sorpresa ogni qual volta si associa il partito al fascismo, e dall’altro resti in continuità politica con il passato, criticando pezzi storici del fascismo senza separarsi in modo completo dal simbolismo del Ventennio. “Have your cake and eat it too” si dice in inglese, la botte piena e la moglie ubriaca. Una strada evidentemente praticabile per gli italiani, che non paiono aver paura di lei né della fiamma, ma moralmente compromessa. Se paragonata a un’altra leader post-fascista come Marine Le Pen, Meloni è andata nettamente più avanti sui temi, come l’occidentalismo, ma è rimasta indietro sui simboli e sul rapporto con il padre, che invece la Le Pen ha rotto del tutto».
Il suo ultimo libro, “Il grande esperimento” (Feltrinelli), racconta la sfida delle democrazie chiamate a trasformarsi da monoreligiose a multietniche. Non è esattamente il processo che la destra di Meloni vuole arrestare?
«E’ una sfida rischiosa che può mettere in discussione la pace sociale, ma va affrontata e si vedono già dei progressi. Giorgia Meloni si muove in direzione opposta, è questo per me il pericolo maggiore: non temo tanto il revival di Mussolini o l’attentato alle istituzioni democratiche ma il tentativo di rimandare indietro l’orologio sociale italiano sull’immigrazione, sui diritti. L’Italia di oggi è di fatto in parte multientinica e multiconfessionale, la società accetta questa evoluzione ma ne ha anche paura. Su questa paura batte Meloni, non credo voglia tornare agli anni ’30 ma piuttosto agli anni ’60».
Come spiega che, a suo dire, gli italiani sembrano temere meno il passato del futuro?
«A ragion veduta, gli italiani credono che negli ultimi cinquant’anni qualsiasi maggioranza sia stata votata non abbia cambiato granché. Poi magari un giorno ne arriverà una che ribalterà la democrazia, ma per ora l’elettore non è preoccupato se non per il ristagno del Paese. A ciò va aggiunta la capacità di tenere i piedi in due staffe, croce e delizia dell’Italia, per cui puoi essere due cose insieme, come Fini, che alle fine pareva un argine democratico a Berlusconi, e come Meloni, fascista ma anche occidentalista e filo-americana. Altrove sarebbe difficile. Non so perché ma gli italiani, pur avendo avuto un chiaro e fiero rifiuto del fascismo nel 1945, non lo considerano un tabù come i tedeschi e hanno tollerato a lungo l’influenza del post-fascismo. Ricordo quella volta che in Toscana, vicino casa mia, trovai dal tabaccaio un accendino con l’effige di Mussolini e ne chiesi conto. L’uomo al di là del bancone, simpatico, mi assicurò che la settimana successiva sarebbero arrivati anche quelli di Che Guevara. Una mancanza di riflessione sul Duce ma anche sull’idea di icona democratica».
Perché, in Italia e non solo, il populismo resta in sella?
«Fornisce risposte semplici, seppure non risolutive. La nuova tendenza però è la spinta del populismo verso destra e su questo è interessante mettere in prospettiva il ruolo dei 5Stelle, che si dicevano né di sinistra né di desta ma avevano radici a sinistra. Ebbene, il loro populismo anti-casta ha attratto gli elettori delusi dalla sinistra e poi pian piano, attraverso l’esperienza di governo con la Lega, li ha abituati all’anti-statalismo di destra, un tema sensibile in un Paese come l’Italia con una grossa classe media ferita dalla stagnazione e dalla corruzione. Beppe Grillo ha di fatto allargato il populismo a destra».