Il settembre della Repubblica nera
In questo mese del 1943 Benito Mussolini, prigioniero sul Gran Sasso, fu liberato dai paracadutisti di Hitler. Di lì a pochi giorni, in un’Italia spaccata in due tra Alleati e nazifascisti, con la nuova forma di governo della Rsi cercò di dare un futuro al regime. Inutilmente.
Dopo un lungo silenzio (per i più inspiegabile) la sera del 18 settembre 1943 la radio fece ascoltare agli italiani la voce di Benito Mussolini. Parlava da Monaco di Baviera. Si trovava in Germania, formalmente ospite dei nazisti che fino a quel momento lo avevano tenuto alla catena ma, da lì in avanti, avrebbero accorciato il guinzaglio per tenerlo ancora più stretto. «Camicie nere, italiani e italiane» esordì «ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi perché, dopo un periodo d’isolamento morale, era necessario che riprendessi contatto col mondo».
Il centenario della Marcia su Roma (28 ottobre 1922) richiama - per forza centripeta - altri passaggi del ventennio fascista. Come quando Mussolini, messo in minoranza dal Gran Consiglio (25 luglio 1943) e imprigionato dal re (26 luglio 1943) ritornò protagonista per i 20 mesi più tragici della storia italiana. Governò - si fa per dire - il Nord Italia, agli ordini dei tedeschi e circondato dalle camicie nere più arrabbiate. Era stanco, di una stanchezza non occasionale, quando annunciò che l’esperienza del fascismo non era morta ma sarebbe stata riproposta, in un ideale riferimento repubblicano e sociale «di sinistra»: la Repubblica sociale italiana, per l’appunto, più conosciuta per l’acronimo Rsi.
Mussolini stava perdendo il piglio imperioso che lo aveva accompagnato nella sua avventura con gli anni del regime. E se i radio ascoltatori, avessero potuto vederlo, avrebbero notato i suoi lineamenti smagriti, le guance scavate dalla fatica e un gesticolare lento e persino impacciato. Di quel duce che aveva conquistato le piazze, infiammandone la fantasia, restavano gli occhi che spalancava come per distinguere meglio quello che gli stava intorno. Rievocò i fatti del 25 luglio: «È già accaduto che un ministro sia dimissionato o un comandante silurato ma è un fatto unico nella storia che un uomo il quale, come colui che vi parla, aveva per 21 anni servito il re con assoluta fedeltà sia fatto arrestare sulla soglia della casa privata del re, costretto a salire sull’autoambulanza della Croce Rossa col pretesto di sottrarlo a un complotto, condotto a velocità pazza in una e poi i un’altra caserma dei carabinieri».
La stragrande maggioranza degli italiani non conosceva quei dettagli. Sapevano che Mussolini era stato sfiduciato e messo nelle condizioni di non nuocere. Tanto era bastato per abbattere le statue celebrative del regime, saccheggiare le case dei gerarchi e tagliare qualche gola per dare consistenza al furore (represso) degli ultimi mesi. I giornali non avevano indugiato sui dettagli della vicenda e se l’erano sbrigata con sommarie descrizioni. La censura che Mussolini aveva ampiamente praticato funzionò anche con governi di altro segno. Il duce, da Monaco, si scagliò contro i Savoia che avevano «preparato e organizzato nei dettagli il colpo di Stato, complice ed esecutore Badoglio, con l’accondiscendenza di alcuni generali imbelli e imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo».
Il duce (diventato ex) era stato trasferito a Campo Imperatore, sul pianoro più alto del Gran Sasso d’Italia. Sembrava il luogo più appropriato dove tenerlo prigioniero. Gli uomini del nuovo corso temevano possibili ritorsioni fasciste che non ci furono. I capi delle camicie nere che avevano giurato di morire per il duce, rapidamente si rassegnarono a vivere senza. A liberare Mussolini ci pensò Hitler pretendendo che, con assoluta precedenza, ci si occupasse «del suo amico italiano». Si trattò di un autentico blitz che battezzarono «Operazione Quercia».
Ci lavorarono gli uomini della Luftwaffe, la forza aerea. Il generale Kurt Student si assunse la responsabilità dell’impresa. Il comando sul campo toccò all’ufficiale delle SS Otto Skorzeny. Per questo Mussolini, alla radio di Monaco, rese omaggio all’amicizia tedesca e recise ogni legame con la monarchia. «Quando un re» dichiarò «manca a quelli che sono i suoi compiti, perde ogni ragione di vita». Il governo futuro sarebbe stato senza teste coronate. Gli impegni più immediati riguardarono «il riprendere le armi al fianco degli alleati» obiettivo per il quale risultava indispensabile «occuparsi della riorganizzazione delle Forze Armate». Ma, forse, ancora prima di tutto, «eliminare i traditori» che, il 25 luglio, gli avevano voltato le spalle.
Alcuni di quei «traditori» finirono davanti al plotone d’esecuzione a Verona. E le vendette trasversali si sprecarono. L’impegno dei «repubblichini» fu orientato soprattutto alla repressione delle bande partigiane. All’inizio, i rapporti di forza avvantaggiavano i fascisti ma, già nella primavera del 1944, risultò chiaro che per Mussolini non c’era più niente da fare. I giovani abbandonarono le camicie nere e scelsero quelle rosse. Quanto al resto, i progetti sociali della Rsi rimasero per lo più sulla carta.
A Monaco, dove il duce venne ospitato, lo aspettavano la moglie Rachele e i due figli minori. Alcuni gerarchi fascisti (diventati ex in una manciata di ore) erano riusciti a passare la frontiera e ripararsi nel Quartiere Generale del Führer. C’erano il ras di Cremona Roberto Farinacci; Alessandro Pavolini, che era stato ministro della Cultura popolare; il capo delle organizzazioni giovanili Renato Ricci. E c’era Galeazzo Ciano, che passava per «traditore». Per questo lui si sentiva in imbarazzo, come fosse stato un corpo estraneo, guardato di traverso dalle altre camicie nere. Che, per la verità, non godevano - nemmeno loro - di particolare apprezzamento. Joseph Goebbels, il cruciale ministro della Propaganda del Reich, non riusciva a capacitarsi di come un movimento politico che sembrava poggiare su radici solide si fosse squagliato senza un abbozzo di reazione. Per questo, i fascisti vennero lasciati in una stanza disadorna dove l’unico confort consisteva nel dormire per terra con una sola coperta per ripararsi dal freddo.
Particolari che meglio di qualunque riflessione consentono di comprendere come i tedeschi fossero diventati padroni del destino di Mussolini e di coloro che gli si accodavano. Eppure, come dimentichi (o ignari) di un mondo in ebollizione, trascorsero tre giorni ad accapigliarsi, contendendosi incarichi (nemmeno definiti sulla carta) e ruoli di ministri (per un governo appena tratteggiato). Mussolini, svogliato e persino riluttante, dovette partecipare a lunghe telefonate «triangolari» fra Rastenburg (la «Tana del lupo», dove si trovava lui), Hirschberg (dove era Hitler) e l’ambasciata tedesca di Roma.
Il primo nodo da sciogliere era quello di trovare un uomo di prestigio da insediare al ministero della Guerra. La persona più affidabile sarebbe stato il generale Ugo Cavallero che però non c’era più. Era stato trovato con la pistola in mano e un proiettile in testa. Gli inquirenti si sbrigarono a rubricare quella morte come suicidio. E non vollero badare al fatto che l’ufficiale, mancino, impugnava l’arma con la destra. Alla fine - più per necessità che per convinzione - fu scelto Rodolfo Graziani. Negli ultimi tempi di regime fascista ancora al potere, era stato emarginato. In Africa, aveva inanellato una serie di sconfitte per le quali Mussolini bofonchiò: «Ecco un uomo col quale non posso arrabbiarmi perché lo disprezzo». Gli tolsero il comando e lui si rifugiò nella sua tenuta in Ciociaria, come fosse finito in esilio. A distanza di qualche mese, essendo l’unico disponibile, venne riesumato per il comando dell’esercito della Repubblica sociale.
Per la verità, all’inizio, abbozzò un rifiuto ma quando gli obiettarono che «quell’atteggiamento avrebbe potuto essere qualificato come paura» indossò la divisa e rispolverò l’armamentario del super ufficiale. Per gli altri dicasteri - «fra lamentevoli incoerenze» - venne scelto Guido Buffarini Guidi per gli Interni, Fernando Mezzasoma per la Cultura popolare, Domenico Pellegrini Giampietro alle Finanze, Carlo Alberto Biggini all’Educazione nazionale, Nicola Bombacci al Lavoro. Due ufficiali - l’ammiraglio Antonio Legnani e il generale Carlo Botto - furono destinati alla Marina e all’Aeronautica. Sottosegretario alla presidenza: il pluridecorato Francesco Maria Barracu. Mussolini tenne per sé gli Esteri. Di questi, nessuno contava niente. Le leve di quel poco potere che ancora esisteva finirono nelle mani naziste.
Rudolf Rahn, diplomatico di carriera e plenipotenziario nell’Italia occupata, diventò la vera ombra del duce del quale controllò e condizionò decisioni e iniziative. Il generale Albert Kesserling, comandante militare del territorio, s’impegnò per un verso a controllare la porzione d’Italia che occupava e per l’altro a contrastare l’avanzata degli Alleati. Diversamente dallo stratega Erwin Rommel (che da responsabile delle forze tedesche in Italia settentrionale - prima di dover trasferirsi su altri fronti - avrebbe preferito abbandonare Roma), decise di contrastare in ogni modo gli americani che dalla Sicilia stavano risalendo la penisola. Le decisioni militari erano le sue. Agli altri veniva lasciata la scelta di obbedire.