Ucraina, gli orrori dell’occupazione
BALAKLIJA. «Ad un certo punto, sette giorni fa, sono usciti per strada, ci hanno puntato alla testa i Kalashnikov, e ci hanno tolto di mano le biciclette. Notte tempo le hanno usate per scappare, hanno lasciato tutto dietro, sono fuggiti come ladri». Irina racconta così le ultime fasi dell’occupazione russa di Balaklija, città a sud est di Kharkiv, snodo fondamentale che porta a Izyum, centro nevralgico della catena dei rifornimenti russi verso il Donbass. Sono queste le zone appena liberate nel corso della controffensiva ucraina che dura da sette giorni, una serie di successi istantanei che hanno portato alla riconquista di oltre seimila chilometri quadrati di territorio nella porzione orientale del Paese. Un’operazione lampo, nel vero senso della parola, al punto tale che anche gli abitanti di città, villaggi e insediamenti liberati ancora non possono credere ai propri occhi. Specie dopo sei mesi di «inferno». «Alcuni si sono travestiti, si sono messi le tute come se andassero a fare jogging, hanno tentato di confondersi tra la gente, – racconta Artem che con la mano ci indica la strada che porta fuori città – . Noi li vedevamo, sapevamo che erano loro, ma non capivamo cosa stavano facendo, pensavamo fosse una provocazione, l’ennesima. Li abbiamo lasciati andare, dopo tanti mesi di vessazioni e violenze. A ripensarci…».
L’incredulità per la fine di un incubo è ciò che accomuna tutti a Balaklija, specie alle persone di una certa età, i più giovani invece hanno lo sguardo della vendetta. «Sono dei porci, picchiavano i nostri genitori, a noi studenti volevano farci il lavaggio del cervello, avevano fatto venire anche gli insegnanti da Mosca – racconta Galina – . Ma all’inizio del nuovo anno scolastico se ne erano andati tutti via». Scappati forse perché sapevano. Alle porte della città è un continuo via vai di mezzi militari ucraini, mentre le bandiere giallo-blu sventolano su ogni check point. Ce ne sono tanti e i controlli sono ossessivi, si teme la fuga dei collaborazionisti. Approfittiamo della lunga attesa uno dei posti di controllo per conoscere Caterina, una signora di 75 anni (ci tiene lei a dirlo con orgoglio) ha gli occhi azzurri e il viso incorniciato in un circuito di rughe strepitose, un mosaico di vita vissuta. «Una per ogni anno della mia vita», ci dice ammiccando. «È il primo sorriso che fa da mesi», osserva il marito, si chiama Pavel, un omone alto e con un cappello a falde stretta in testa, tipo da pescatore. È l’unica cosa che dice in un’ora di conversazione. A parlare è sempre Caterina, racconta della casa bombardata, del tetto coperto da una tenda rossa che conferisce un alone mistico al rudere, della figlia lontana che è scappata prima dell’arrivo dei russi. Del fatto che sono sei mesi che la sente solo al telefono: «Mi ha detto che presto tornerà». Ci regala i frutti dell’orto che ha sempre continuato a coltivare, nonostante le bombe e i saccheggi dei russi: «Era il mio modo per rimanere aggrappata alla vita». E la vita le è stata riconoscente. «I più pericolosi erano gli asiatici - prosegue turbata -, quando venivano non chiedevano, facevano male e basta».
La stessa cosa la dice Aleksander, ha quasi paura ad ammetterlo, come se quegli sgherri possano tornare da un momento all’altro. Quando vede Mariya per strada, davanti al monumento a Shevchenko, scrittore considerato una sorta di Dante ucraino, avvolto tra le bandiere, si abbracciano. Lei si abbandona in un pianto liberatorio. Il cammino per la città liberata prosegue con due volontari della Guardia nazionale, vanno negli uffici della Posta centrale, un casermone a pianta quadrata con il cortile pieno di carcasse con la Z bianca in evidenza. Devono bonificare l’area da mine ed eventuali trappole, saliamo con loro. In una delle stanze ci sono due brande con fili attaccati e i sacchi di sabbia alla finestra. «Era la stanza degli interrogatori, o meglio delle torture», ci dice uno di loro. Sono evidenti sui muri le testimonianze di ciò che avveniva in quel loculo. Davanti al municipio alcune centinaia di persone attendono in fila ordinata gli aiuti umanitari, 40 tonnellate quelli arrivati negli ultimi tre giorni, scatole contenenti biscotti, riso, carne in scatola e pasta, ci sono nomi nostrani sopra, pronunciati dalle persone che li ricevono con fare liberatorio: «Spaghetti, buoni, grazie Italia».
Viktor è il capo del consiglio comunale, è lui a gestire la logistica della distribuzione, racconta come i volontari da giorni lavorano senza soluzione di continuità per garantire un pasto a tutti. «Il problema più serio è convincere la gente di Balaklija che è davvero finita – dice – , che non si tratta di un miraggio». La paura è penetrata nel corpo e nell’animo della gente, manifestandosi spettrale quando all’orizzonte si vedono scie bianche, o si sentono boati di artiglieria e missilistica, specie nella notte. Traumi difficili da elaborare. Anche perché la resa dei conti non è la liberazione di Balaklija: «Stiamo andando ad Izyum, e poi in Donbass, dobbiamo mettere la parola fine a questa guerra, per sempre», ci dice una carrista con il casco a bordo di un cingolato pesante. La colonna dei mezzi ucraini prosegue la marcia verso sud, noi con loro, mentre la gente li saluta con le mani alzate e i visi increduli. Per loro è un sogno solo pensare che gli occupanti se ne siano andati senza colpo ferire: «Scappati di notte come ladri di biciclette».