Europa povera di risorse
Con la consueta lucidità, l’analista della società di investimenti Kairos Alessandro Fugnoli descrive così il fragile destino che aspetta l’Europa: «L’America è autosufficiente nell’energia ed è un mercato poco aperto al commercio. Cina e Russia, insieme, sono anch’esse autosufficienti. L’Europa, che non ha materie prime e ha un modello basato sulle esportazioni, è il vaso di coccio del nuovo mondo bipolare». Nella sua sofisticata newsletter settimanale Il rosso e il nero lo strategist ha rincarato la dose spiegando che «con il costo dell’energia più alto del mondo, l’Europa perderà gradualmente l’industria pesante. Il resto del manifatturiero, che ha appena perso il mercato russo, rimarrà in piedi, ma sarà meno competitivo e più vulnerabile a causa della sua dipendenza dalle esportazioni. Per ora, a parte l’alta tecnologia, l’Europa può ancora esportare tranquillamente in Cina, ma qual è il piano B se le tensioni su Taiwan dovessero provocare una ricaduta sul piano commerciale?»
Frastornati dalla crisi pandemica e poi dal conflitto ucraino, travolti dall’inaudita impennata dei prezzi del gas, intimoriti dalla crescente arroganza dei cinesi, gli europei guardano al futuro preoccupati. Risuonano ancora nelle nostre orecchie le parole del presidente francese Emmanuel Macron: «L’era dell’abbondanza è finita». E anche quelle del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, seppur dettate dalla rabbia per le sanzioni che sta subendo la Russia, non ci fanno stare tranquilli: ha evocato «una grande tempesta globale».
L’Europa assiste a una frattura del mondo che sembra mettere in soffitta la globalizzazione: da una parte Cina e Russia, dall’altra l’America. In mezzo noi, che ci consideriamo il centro del pianeta ma in realtà perdiamo via via importanza. È vero, siamo ricchi, ma stiamo invecchiando e non siamo tanti: 746 milioni di cittadini contro il miliardo e 400 milioni della Cina, il miliardo e 380 milioni dell’India, il miliardo e 200 milioni dell’Africa, il miliardo delle due Americhe. E per noi, che siamo trasformatori, la globalizzazione è fondamentale, dobbiamo vendere i nostri prodotti intermedi e finali a tutto il mondo. Ma come ci hanno rivelato il Covid e la guerra, siamo terribilmente dipendenti dalle materie prime degli altri. Non si tratta solo di rifornirci di petrolio e gas metano. Il carbone, utilissimo in questo momento per sostituire il metano nelle produzione di elettricità, viene estratto in Cina, India, Stati Uniti, Australia: l’Europa è al quinto posto con una produzione che è pari a un settimo di quella cinese.
E poi c’è l’alluminio, dove la produzione cinese è quasi nove volte quella del secondo produttore, la Russia, seguita da Canada, India, Emirati Arabi, Australia e Norvegia. Il cobalto, fondamentale insieme al litio per la costruzione delle batterie per auto elettriche, si trova soprattutto nella Repubblica democratica del Congo dove si concentra circa il 70 per cento della produzione e il 50 per cento delle riserve a livello globale, il cui monopolio peraltro è già in mano alla Cina.
«La Commissione europea» viene ricordato in un’analisi della Cassa depositi e prestiti «ha identificato 30 materie prime critiche (tra cui litio, gallio, grafite, magnesio, titanio) indispensabili per costruire batterie, semiconduttori, celle fotovoltaiche, per realizzare leghe leggere nei settori automobilistico, dell’elettronica, dell’aeronautica, degli imballaggi, dell’edilizia». Di queste, solo poco più del 20 per cento viene fornito da Paesi membri dell’Unione, per la stragrande maggioranza l’approvvigionamento è concentrato in Paesi terzi: oltre il 98 per cento della fornitura di terre rare dell’Ue proviene dalla Cina, il 98 per cento del borato dalla Turchia, l’87 del litio dall’Australia, il 71 del platino dal Sudafrica. «Allo stato attuale» sottolinea il report di Cdp «la Cina detiene il primato come principale Paese fornitore di materie prime critiche per l’Ue rendendo quest’ultima vulnerabile a eventuali restrizioni sull’export o ad altre decisioni di tipo strategico da parte di Pechino tra cui l’eventuale scelta di sostenere il vantaggio competitivo delle industrie cinesi riservando loro maggiori quote di produzione».
L’Europa dunque «dovrebbe dunque assicurarsi una sempre maggiore autonomia commerciale e geopolitica in termini di approvvigionamento interno di materie prime critiche, che non può non passare, per esempio, per il reshoring di alcune fasi strategiche delle catene di produzione o per lo sviluppo di una forte industria del riciclo delle materie prime». Ma anche sul fronte alimentare non siamo messi bene, come ha mostrato la guerra in Ucraina: cinque Paesi gestiscono più di due terzi delle esportazioni globali di grano, Russia, Stati Uniti, Canada, Francia e Ucraina. Il Brasile rappresenta il 40 per cento delle esportazioni globali di zucchero e il 50 per cento di quelle di soia. Gli Usa controllano il 26 per cento dell’export di mais.
Il problema per l’Europa non è solo procurarsi le materie prime, magari riaprendo miniere, andando alla ricerca di giacimenti di litio nel continente o recuperando terreni agricoli non produttivi, ma anche ripensare il proprio ruolo di trasformatore: già nel 2020 l’istituto Bruegel avvertiva che «l’integrazione verticale della Cina pare avere un impatto sulla capacità dell’Ue di esportare prodotti intermedi in misura maggiore rispetto agli Stati Uniti o al resto dell’Asia». Secondo l’istituto di ricerca «la spiegazione più ovvia del calo dell’integrazione commerciale globale dell’Ue è la sua dimensione relativamente minore nell’economia mondiale. Ma non è l’unica ragione. La diminuzione del ruolo globale dell’Unione nelle catene del valore manifatturiero è in gran parte conseguenza di una crescita della domanda interna molto più debole rispetto al resto del mondo». Di fronte a questo quadro preoccupante l’Europa sta reagendo. Ha una serie di programmi per aumentare la produzione di batterie, pannelli fotovoltaici, derrate agricole e per estrarre litio, cobalto e grafite. Resterà però sempre dipendente dall’esterno per molte materie prime.
C’è il pericolo che in futuro il vaso di coccio europeo venga fatto a pezzi? «Io intanto non parlerei di Europa ma di Paesi europei» precisa Antonio Villafranca, direttore di ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale Ispi e grande esperto di temi europei. «I singoli Stati non avranno alcun ruolo significativo nel mondo del futuro se non all’interno del blocco europeo. Da soli non possono affrontare potenze globali come Cina o Stati Uniti e davanti a crisi così gravi come l’attuale, la tenuta sociale dei loro sistemi democratici può essere a rischio».
Villafranca non pensa che il mondo stia scivolando verso uno scenario bipolare in stile Guerra fredda né ritiene che l’era della globalizzazione sia finita: vede piuttosto un futuro multipolare con Paesi schierati su vari fronti con l’Occidente e su altri con la Cina, come dimostrano già oggi i casi di India o della Turchia. «È vero, il modello occidentale è diventato meno attrattivo mentre i cinesi sono più assertivi grazie a un sistema autoritario che per ora ha successo. Ciò non significa che la Cina non abbia più bisogno dell’Europa, che resta il suo principale partner commerciale. Gli europei potranno resistere ma dovranno essere più uniti, per esempio nella difesa comune, mantenendo un approccio di euro pragmatismo di fronte alle sfide che via via si presenteranno».
L’Europa dunque può farcela se si rafforza come unione. Ma se questa è la rotta indicata, dipende se i singoli Paesi accetteranno maggiore integrazione rinunciando ad altri pezzi di sovranità. Una sfida tutta da verificare. E un messaggio per il prossimo governo italiano.