Rognoni e la legge anti-mafia scritta con Pio La Torre dopo l’omicidio Dalla Chiesa
Dieci giorni dopo l’uccisione del generale Dalla Chiesa il Parlamento introdusse il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni della criminalità organizzata
PAVIA. Il 13 settembre 1982, dieci giorni dopo l’agguato di Palermo nel quale vengono uccisi Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, il Parlamento approva in via definitiva la legge Rognoni-La Torre che introduce il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso e le misure di sequestro e confisca dei patrimoni e dei beni illecitamente accumulati dalla criminalità organizzata.
Un punto di svolta decisivo nella lotta a Cosa Nostra: il provvedimento, infatti, ha garantito – finalmente – alle procure e ai tribunali gli strumenti giuridici per colpire i mafiosi nel loro ventre molle: le ricchezze, fino ad allora garanzia di potere e di mezzi sostanzialmente illimitati e impunibili.
La legge che porta il nome di Virginio Rognoni, allora ministro democristiano dell’Interno (carica tenuta dal 1978 al 1983) e di Pio La Torre, segretario del Partito comunista siciliano assassinato dai killer mafiosi il 30 aprile 1982, sarà l’architrave su cui Falcone e Borsellino costruiranno il maxiprocesso alla “Cupola” e il supporto legale delle successive inchieste che hanno messo a segno colpi importantissimi nella lotta alla mafia.
Le ricchezze al setaccio
«Quella legge ha cambiato tutto – ribadisce Franco La Torre, storico, saggista, figlio di Pio, che il 13 ottobre sarà al collegio Santa Caterina di Pavia, per parlare del “patrimonio ideale e politico” del padre, nell’ambito del ciclo di incontri coordinato dal professor Enzo Ciconte – Ha dato la possibilità di indagare sulle ricchezze e i beni privati dei mafiosi, prima tutelate dal segreto bancario. Ma non sottovaluterei neppure l’introduzione del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Insomma, se prima in Italia si poteva impunemente dire che la mafia non esiste, con la legge Rognoni-La Torre diventa reato il sostenerlo».
Di «svolta fondamentale» parla anche Enzo Ciconte: «Il clima dopo la legge è cambiato, il vento ha cominciato a tirare in un’altra direzione. Se ne rese conto anche Tommaso Buscetta (il superpentito che svelò a Giovanni Falcone i segreti di Cosa Nostra e della sua organizzazione) che cominciò a parlare dopo il varo della legge, non prima».
Le raffiche di kalashnikov
Quarant’anni fa, l’Italia scendeva nelle strade per celebrare il trionfo ai Mondiali di Spagna, con i gol di Pablito Rossi, le parate di Zoff, il presidente Pertini in estasi al Bernabeu accanto a re Juan Carlos. Ma il 1982 fu anche profondamente segnato dalla sfida mafiosa allo Stato, una stagione di piombo che sembrava non dovesse aver mai fine. L’omicidio La Torre. E il 3 settembre, in una Palermo soffocata dalle intimidazioni e dal potere apparentemente indistruttibile dei boss, le raffiche di kalashnikov che fanno strage di Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela, dell’agente Russo.
Virginio Rognoni è a capo del Viminale, deve reggere il timone degli Interni in un clima di veleni e di pesanti sospetti. Poco prima di morire, lo stesso Dalla Chiesa, in una famosa intervista rilasciata a Giorgio Bocca, aveva confessato la solitudine in cui sentiva di essere stato lasciato dai vertici dello Stato, quasi un presagio della fine imminente. Oggi, quarant’anni dopo, il figlio Nando Dalla Chiesa, scrittore, editore, docente di Sociologia alla Statale di Milano, riflette così: «Virginio Rognoni si è trovato in una situazione estremamente difficile e complicata, ministro dell’Interno all’inizio degli anni Ottanta, mentre l’Italia era nella duplice morsa del terrorismo, da un lato, e della criminalità organizzata, dall’altro. Ha cercato di prendersi tutto quello che poteva, di responsabilità, ma il sistema era più forte di lui».
«Non dimentichiamo, comunque – aggiunge Dalla Chiesa – che Rognoni fu l’unico ministro in carica a venire a Corleone ai funerali del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo (assassinato la sera del 20 agosto 1977 a Ficuzza, frazione di Corleone, da un gruppo di fuoco mafioso comprendente Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca). Ed è stato anche l’unico a dire la verità sull’attentato dimostrativo a mio padre. Molti – prosegue – pensavano che l’avrei attaccato, anche alla luce dell’intervista a Bocca. Ma io non faccio i nomi di chi non è riuscito ad impedire l’attentato, semmai di chi l’ha favorito».
La lezione alla Statale
Poi rivela: «Io e Rognoni ci sentivamo ogni anno il 3 settembre, anniversario dell’agguato di Palermo. Ci siamo visti una volta al Viminale e un paio al collegio Santa Caterina di Pavia» (dove Nando Dalla Chiesa tornerà il prossimo 6 ottobre per la conferenza sui “Cento giorni a Palermo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa”). «Alla Statale – aggiunge – l’abbiamo voluto nel comitato editoriale sul crimine organizzato. Ricordo con particolare piacere un suo incontro con gli studenti, 7 o 8 anni fa». Che cosa accadde? «Alla fine, gli studenti erano sbalorditi dal suo modo di fare, e mi chiesero se i politici una volta erano davvero così. Un abisso rispetto alla situazione attuale». Rognoni è stato sempre coerente: «Sì. E con posizioni coraggiose. A una riunione della Margherita ci chiesero di indicare un nome per il Consiglio superiore della magistratura e quando feci quello di Rognoni un paio di giuristi commentarono: “largo ai giovani...”. Ora io dico: meno male che venne fatto il nome di Rognoni».