Maurizio Maggiani: “Io, libertario e mazziniano voterò senza turarmi il naso”
Lo scrittore spiega perché andrà ai seggi: «La sovranità è per diritto eterno del popolo Sono cresciuto con le lotte di sfruttati e calpestati, non posso tradire i miei fratelli»
Perché alla fine lo faccio, mi arrendo e vado, e lo faccio neppure in virtù della ragione, ma di qualcosa che assomiglia a un sentimento. E non è, come si dice dai volenterosi più miti, il sentimento di gratitudine per coloro che hanno messo in gioco la vita, mio padre tra loro, e la vita ce l’hanno lasciata perché la fede che ci accompagna sarà la legge dell’avvenir, no, non più da un pezzo ormai. Quella fede nei decenni è stata pervertita e infine vituperata, ne resta la traccia, ormai sedimento fossile, nelle carte della Costituzione della Repubblica, nello sparuto novero degli eredi che hanno preso in consegna il mandato delle madri e dei padri che quelle carte hanno scritto e sancito.
Sono un libertario della specie più intrattabile, riesco ad essere persino un fervente mazziniano e credo indefessamente che la sovranità è per diritto eterno nel popolo, articolo 1 della Costituzione della Repubblica Romana, e non mi accontento che la sovranità appartiene al popolo, articolo 1 della nostra; perché, è certo, non c’è niente di eterno nella proprietà, la proprietà, ogni proprietà, è per sua natura transitoria e oggetto di contesa, di furto e di rapina, così che, nello specifico, oggi la sovranità appartiene al popolo e domani al Partito Unico e dopodomani ai burocrati del Partito Universale. Il popolo è nella sua sovranità, altrimenti è fantasia romantica o pusillanime costruzione di un inganno; e la sovranità è assunzione di coscienza e pratica quotidiana della responsabilità di ognuno sul destino di tutti, questa è comunità, in questo si fonda la Nazione degli uomini liberi. E per questo la sovranità è costante tensione con la necessità materiale della rappresentanza.
Il sogno di Mazzini, la sua anarchia che non sarà mai di questo mondo, è tutto scritto nella banda bianca del suo tricolore, Dio e Popolo, niente e nessuno si frapponga tra l’esercizio della sovranità popolare e l’Assoluto; allora l’elezione di rappresentanti è esercizio di una rinuncia, un sacrificio dovuto alla necessità, e noi sovrani, noi responsabili del nostro comune destino, lo sopportiamo solo se la delega è frutto della massima conoscenza, della massima libertà e della massima fiducia. Oggi cosa ci resta della nostra sovranità nell’atto di delegarla, di quanta conoscenza ci è dato disporre, con quanta libertà ci è dato scegliere, con quanta fiducia possiamo farlo? C’è qualcosa di ripugnante nell’invocazione dei sovranisti al popolo sovrano, visto che è affar loro la depravazione della conoscenza in credenza, l’esaltazione della illibertà, lo svilimento della fiducia in abbandono. Ma non è loro la responsabilità prima dello svilimento, della scarnificazione della sovranità popolare, anzi, ne sono l’inequivoca conseguenza; quando, e sono passati ormai decenni, si è imposta sopra ogni altra l’urgenza della governabilità, si è traslata l’inettitudine degli eletti nell’inettitudine degli elettori, in nome della governabilità si sono edificati e poi demoliti sistemi elettorali tutti intenti a ridurre, a rendere sempre più insignificante, persino ridicolo, l’esercizio di una libera, consapevole, fiduciosa scelta della rappresentanza.
Questo è, e allora perché andrò a votare, e lo farò senza sentire il bisogno di turarmi il naso o altro orifizio, lo faccio pur sapendo che l’usurpazione della mia sovranità mi istiga a non farlo e mi incita alla disobbedienza civile? Devo alla mia leggendaria nonna Anita poche ma preziose regole di saggia conduzione della vita, tra queste la seguente: né ‘gno, chi nasa merda mora merda, bambino mio, chi nasce merda merda muore. Ovviamente nessuna sfumatura di disprezzo o intento denigratorio; la merda, per lei contadina era un bene, noi stessi eravamo la merda che fecondava la terra, e mi è stato insegnato a condurmi nel mondo, merda com’ero, con orgoglio, del resto non portava il nome di Anita per caso, lei era moglie di Garibaldi, contadini di miseria che conoscevano la fierezza e la signorilità. E quella roba lì ancora oggi sono; con tutta la fortuna che ho avuto, con tutti i privilegi che la vita mi ha concesso, istruito, ben nutrito e in salute, non riesco ad essere altro, e non ci riuscirei nemmeno a provarmi a tradire il sentimento che fa miei fratelli, miei compagni merda della Terra, gli sfruttati malpagati, frustrati, repressi, calpestati, odiati, derisi, picchiati, derubati, dimagriti, declassati, sottomessi, disgregati, per citare Rino Gaetano, un altro mio fratello.
Ed è per questo che vado a votare, perché so bene che comunque e nonostante tutto, ci sarà per noi una differenza, foss’anche di un grano, di un filo, di un tanto così in peggio o in meglio, in bene o in male. Io ci sono cresciuto nelle lotte di un popolo che quando non erano sconfitte, erano conquista di un tanto così, e non dimentico che anche quel poco è stato questione di vita o di morte, di fame o sollievo, di servitù o dignità. Ci vado anche se piove, perché sul capo mio e dei miei fratelli la pioggia non si faccia tempesta.