Ci sono voluti due anni di lavoro per realizzare Wanna, la docuserie su Wanna Marchi che è possibile trovare su Netflix dal 21 settembre. Due anni di lavoro da parte della squadra dell’autore Alessandro Garramone, necessari non solo per le interviste (quelle che poi si vedono nelle 4 puntate) ma soprattutto per la ricerca e l’inchiesta giornalistica utile a capire come funzionasse il lavoro di Wanna Marchi e Stefania Nobile nelle varie ere della loro professione. Due anni per ricostruire ciò che è davvero accaduto (in modo da non doversi fidare ciecamente di quel che dicevano gli intervistati ma avere quante più prove possibili), e soprattutto trovare e far parlare tutte le persone che avesse un senso sentire.

Proprio da questo siamo partiti, nell’incontro con Alessandro Garramone, dal ruolo dei televenditori più noti degli anni ‘80 e ‘90 che nella serie fanno una specie di commento tecnico degli eventi, dello stile di Wanna Marchi e da un certo punto in poi funzionano come il coro di una tragedia greca.

L’idea di fare quest’uso degli altri televenditori vi è venuta dopo averli intervistati o da subito?

«No da subito. Quando ho pensato di fare questa docuserie ho scritto un soggetto proprio, era come mi sarebbe piaciuto raccontare la storia e ho sempre pensato fosse importante inquadrare Wanna come la campionessa di una categoria di televenditori. Nel mio piano iniziale anzi avevano uno spazio anche superiore, poi la storia delle Marchi, a mano a mano che la indagavamo, è diventata più articolata di quel che prevedevamo e ha preso il sopravvento».

Loro sono stati subito tutti disponibili o qualcuno non ha voluto parlare?

«Tutti disponibili anche se poi alcuni come Roberto “il baffo” Da Crema è noto che non sia proprio un grande amico delle Marchi. Abbiamo scelto quei quattro che vedi perché erano i più caratteristici dei loro anni e quelli che ci interessavano di più. Prima li abbiamo incontrati via Skype o siamo andati a casa loro per sondare il terreno e poi li abbiamo intervistati. Alla fine sono uomini di spettacolo, non gli chiediamo qualcosa che vada contro le loro abilità, anzi».

Qualcuno è stato pagato?

«No, è una politica di Netflix di non pagare nessuno. Se ci fosse stata la richiesta di un compenso avremmo fatto cadere la richiesta».

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Questa serie ha scatenato interesse da subito, dal momento che è si è saputo che esisteva e Netflix l’ha annunciata. Vi siete fatti un’idea di come mai?

«Secondo me concorrono due cose. Da un lato c’è grande attesa per queste produzioni italiane di Netflix e poi chiaramente la notorietà di Wanna Marchi, che è un brand. Lei si porta dietro una forza disruptive, è qualcosa di subito scandalizzante, quindi l’interesse è stato sia di una nicchia sempre più grande interessata a questo tipo di prodotti di alto profilo, sia di un pubblico incuriosito da Wanna Marchi. Sai alla fine le Marchi sono uscite dalla tv ma sono rimaste personaggi da meme e da social, non sono scomparse. E comunque Wanna va 2-3 volte l’anno in talk importanti, non è fuori dalla memoria. Il cortocircuito è semmai “Wanna Marchi su Netflix”».

Le interviste sono condotte in modo molto rigoroso ma in certi punti si capisce che c’è stato attrito. Avete cercato di farle crollare? Cioè di tirare giù il loro muro impenetrabile?

«Assolutamente no. Io vengo da una scuola e da una tradizione giornalistica e porto in questo tipo di prodotti quel modo di fare interviste. Poi certo, io lo so quali sono le potenzialità della storia. Ci possono essere stati dei momenti in cui Wanna era meno propensa a parlare di qualcosa nello specifico e io magari le stavo un po’ più sotto, così alle volte si sono generate delle reazioni che hanno restituito molto la temperatura della stanza. Immagina che ci siamo parlati per ore e ore. Ma no, nessun tentativo di farla crollare. Anche perché non volevo la Wanna Marchi urlante, volevamo raccontare la storia, non era importante che sbroccasse».

Aleggia nel documentario comunque il mistero di come sia stato possibile fare così del male alle persone pretendendo di essere nella ragione…

«Io una mia idea ce l’ho. Come per tutti gli antieroi, cosa che Wanna è sicuramente, anche lei dopo una caduta forte, cioè il primo fallimento, diventa improvvisamente più spietata, cattiva e anaffettiva. Credo che ad un certo punto madre e figlia, così legate, non comprendessero più che le loro azioni non potevano essere contate solo dai guadagni. Invece quella era l’ossessione per loro, perché restano sempre commercianti, quindi degne di stima (o autostima) solo se vendono. Dopo il fallimento credo avessero così tanta voglia di rivincita che quando si inventano di vendere i numeri non guardano in faccia a nessuno. Cambia anche lo stile di conduzione, prima non erano così. In tutto questo poi c’è uno spregio del dolore altrui che è ciò che mi colpisce di più, perché sono due donne incredibilmente legate tra loro, che quindi conoscono i sentimenti. Stefania è un pezzo di Wanna e Wanna è un pezzo di Stefania».

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Avete trovato il mago Do Nascimento e intervistato anche lui che è piuttosto enigmatico…

«Guarda, ti dico come è andata. Quando l’abbiamo trovato ha accettato di parlare probabilmente preso dalla curiosità, ma non era convintissimo. Io sono andato a Salvador nello stato di Bahia in Brasile per fare quelle riprese, e quando lo incontro la prima cosa che mi dice è che non vuole parlare di tutta una serie di cose. Infatti le prime risposte erano da buttare, mi rispondeva male e se andavo su quei temi scattava: “Vedi che me la stai chiedendo??”. Insomma, era sulla difensiva. Quando dice “Capito?” allusivamente, quello è un messaggio per me, per spiegarmi che se insistevo se ne andava. Credo (ma attenzione che è solo una mia idea non suffragata da niente) che abbia tutto a che vedere con la sua religione, il Candomblé. In Brasile ho avuto una mezza giornata libera che ho dedicato ad incontrare persone del mondo religioso del mago (con una guida). Ho capito che il candomblé è una cosa serissima, e io credo che lui vivesse con grande imbarazzo questa storia. Più della fuga e della condanna credo gli pesasse di avere svenduto un’idea di religione che nella sua famiglia era invece importante, perché la nonna era sacerdotessa del candomblé. Un po’ come nel nostro meridione lì c’è più attenzione e devozione ai culti locali che a quelli nazionali. Infatti di religione non mi ha mai voluto parlare».

Hai capito come mai Do Nascimento abbia voluto comparire? In fondo cosa ci guadagna?

«Questo davvero non l’ho capito, non saprei dirtelo. Forse pensa che potrebbe tornare in Italia un giorno, con me è stato molto chiuso non mi ha nemmeno detto che lavoro faccia oggi. Del resto anche 20 anni fa, quando viveva in Italia, era molto chiuso. Con Stefania Nobile erano amici ma lei gli raccontava tutto e lui nulla. È una persona attenta a stare coperta. Penso abbia nostalgia degli anni italiani, in fondo faceva il cameriere e poi è passato a far pesi in palestra al Principe di Savoia a Milano, appartamenti nella torre fuori città, macchine sportive, faceva volare i parenti dal Brasile in Italia…».

Ma non ha terrore del linciaggio in caso di ritorno in Italia?

«Chi lo sa, di certo è nostalgico. Quando l’ho sentito prima di andare in Brasile a fare l’intervista mi ha chiesto di portargli del Grana Padano come fosse un emigrato qualsiasi».

E gliel’hai portato?

«Sì, sì. L’ho comprato a Fiumicino e gliel’ho portato. Era molto divertito dalla cosa».