Margini stretti per il prossimo esecutivo: a rischio quota 41
I pensionati al minimo si scordino i mille euro al mese promessi da Berlusconi. E chi sperava di andare prima in pensione faccia finta di non aver mai ascoltato Salvini che in campagna elettorale prometteva di mettersi a riposo con soli 41 anni di contributi, 39 per le donne, anziché i 42 e 10 mesi previsti dalla Fornero. Tutte cose che costano decine di miliardi, impossibili da reperire mentre si è a caccia di soldi per stemperare il caro bollette e proteggere salari e pensioni dal caro vita. E’ già tanto se il nuovo governo riuscirà ad evitare il gradone previsto proprio dalla stessa Fornero per il 2023, quando dai 64 anni e 38 di contributi garantiti da Quota 102 si dovrebbe passare ai canonici 67 della pensione di vecchiaia, con 20 minimo di contributi. Oppure ai 42 anni e 10 mesi di contribuzione a prescindere dall’età. Un balzo che lo stesso Draghi voleva attenuare, contemplando anticipi sull’età di pensionamento, sacrificando però un po’ l’assegno, ricalcolato in tutto o in parte con il meno vantaggioso metodo contributivo. Una strada che potrebbe essere ora intrapresa da Giorgia Meloni, che in linea di principio non è contraria a “quota 41”, ma che in questo momento avrebbe difficoltà a reperire le risorse necessarie. Secondo la Lega 4 miliardi il primo anno e 5 per il secondo, molti di più secondo diversi osservatori economici. Per garantire la flessibilità in uscita la strada oltre che dal ricalcolo con il contributivo passa anche per il rinnovo di Ape sociale e Opzione donna. Magari allargandone un po’ le maglie. Oggi l’Ape sociale consente di andare in pensione a 63 anni con un assegno massino di 1.500 euro fino alla pensione di vecchiaia. Può essere richiesta da disoccupati con almeno 30 anni di contributi, lavoratori che assistono un proprio caro da almeno sei mesi, invalidi civili al 74% con 30 anni di contribuzione e dipendenti con 36 anni di contributi che abbiano svolto lavori pesanti. Si potrebbero ridurre i contributi richiesti per accedere all’assegno ed ecco che la flessibilità in uscita potrebbe essere estesa a un maggior numero di lavoratori in difficoltà. Stesso discorso vale per “Opzione donna” che consente alle lavoratrici di andare in pensione a 58 anni se autonome, 59 se dipendenti, con almeno 35 anni di contributi in entrambi i casi, fermo restando che l’importo viene calcolato con il metodo contributivo. Una possibilità che dovrebbe essere prorogata almeno a tutto il 2023. La leader di Fratelli d’Italia ha anche promesso di “detassare quella parte della pensione che gli anziani dedicano al sostentamento di figli e nipoti”, colpendo al contempo le pensioni d’oro con un altro contributo di solidarietà oppure, com’è più probabile, con il ricalcolo tutto contributivo dell’assegno. Quest’ultima si può fare, la prima dipenderà sempre dai conti pubblici. Anche perché bisognerà blindare qualcosa come 25 miliardi di euro in tre anni con la rivalutazione automatica delle pensioni che scatterà dal prossimo anno per recuperare l’erosione di un’inflazione costantemente sopra l’8%. E già 8-10 miliardi vanno ipotecati nella legge di Bilancio 2023, che il governo dovrà affrettarsi a varare. Stime non di un istituto qualunque, ma della Ragioneria generale dello Stato. La rivalutazione sull’inflazione sarà totale per le pensioni che non superano l’importo di 2.096 euro mensili, ossia quattro volte le pensioni minime. Si scende invece al 90% per quelle superiori tra quattro e cinque volte le minime, e del 75% per i trattamenti superiori. I calcoli effettuati dall’Inps dicono che una pensione di 2.500 euro il prossimo anno salirebbe a 2.680 euro. Una bomba ad orologeria sui conti pubblici praticamente impossibile da disinnescare, ma che non lascia di certo spazio a grandi manovre per anticipare l’uscita dal lavoro.
