I bambini perduti di Kiev
Sui tetti di Kiev è più chiaro cosa significhi «strategia del terrore». È più chiaro cosa produce un missile quando colpisce un’abitazione civile, una strada, quando l’onda d’urto scuote i vetri di una torre alta più di cento metri, come la Tower 101, il grattacielo di ventisette piani nel centro della città che fino a otto mesi fa ospitava uffici di aziende internazionali e l’ufficio visto del Consolato tedesco, vuoto ormai da otto mesi, danneggiato dall’attacco di quattro giorni fa.
Le finestre blu della Tower 101 sono state spazzate via dai missili che lunedì hanno colpito Kiev, giacciono a terra e sulle carcasse delle macchine, sui balconi delle abitazioni civili, anch’esse colpite, e nell’atrio della scuola adiacente. L’istituto 47. Chiuso da sette mesi, il cancello della scuola aveva riaperto il primo settembre. Il rifugio antiaereo era a norma, i banchi in ordine, i libri al loro posto, la paura messa da parte. Lungo la via i bar e i caffè erano tornati al viavai quotidiano rimodellato allo stato di guerra. A Kiev non si combatteva, i cieli avevano smesso di fare paura da mesi, l’apertura delle scuole a settembre sembrava un ideale battesimo di ripartenza. Ma è durato poco.
Olena Falko, cinquant’anni, insegna lingua ucraina nella scuola da venti. Lunedì mattina aspettava i bambini sulla porta quando ha sentito le sirene antiaeree, poi il rumore sordo di qualcosa che frantuma al suolo, ha visto i genitori dei bambini cominciare a correre in direzione delle scale verso il rifugio, ognuno gridando il nome del figlio seguito da un unico, corale «Dove sei?». Quando le grida hanno fatto spazio al silenzio che segue, sempre, la minaccia, Olena ha aiutato i genitori a contare i bambini, poi si sono seduti a terra e hanno aspettato.
Il silenzio è stato rotto da un’esplosione, poi da un’altra. Olena ricorda una fila di bambini seduti a terra con la testa tra le ginocchia. Lei e le madri cantavano la canzone delle sillabe e raccontavano la storia del nonno e del suo guanto perduto nel bosco dove si erano rifugiati il topo scavatore e la rana gracidante e il coniglio saltellante e la sorella volpe. Se gli animali potevano stare tutti insieme nel guanto del nonno, anche i bambini potevano tenersi stretti nel rifugio fino al cessato pericolo. E così hanno fatto, per cinque ore e mezza, prima di uscire di nuovo alla luce.
Olena dal giorno dell’invasione non se n’è mai andata da Kiev. Quando le scuole hanno chiuso ha cominciato a prendersi cura degli anziani insieme a suo marito, troppo anziano per arruolarsi. In otto mesi ha imparato della guerra tutto quello che c’è da sapere: le fughe e le attese, la morte e la speranza. La vita sospesa e la mattina in cui per la prima volta ti svegli e indossi di nuovo la divisa della vita di prima.
Questo è stato per lei il primo settembre: la cartellina con le fiabe da insegnare alla scuola primaria, le schede con gli esercizi per i più piccoli erano insieme il ritorno alla vita e il timore di sentirli estranei. Perché quasi tutti i bambini che avrebbe trovato in classe erano scappati dall’Ucraina con le loro madri nei primi giorni dell’invasione.
Di cosa era stata Kiev sotto assedio non avevano, per loro fortuna, visto niente. Per loro, la guerra era il sentimento della nostalgia e il racconto dei padri rimasti qui. Per lei, un’ombra che non la lascerà più.
Da quando è iniziata l’invasione, il 24 febbraio, i bambini ucraini sono stati tra le principali vittime del conflitto. Sette milioni e mezzo di persone hanno lasciato il Paese. Tra loro due milioni e mezzo di bambini. Altri sette milioni di persone sono sfollati interni, hanno dovuto lasciare le loro abitazioni, città, paesi per spostarsi in zone più sicure dell’Ucraina.
Complessivamente, a oggi, secondo le Nazioni Unite, sono più di tre milioni i bambini in stato di bisogno nel Paese. Bambini allontanati dai genitori, privati del diritto al gioco, del diritto allo studio. Bambini le cui scuole sono state obiettivi della campagna russa in Ucraina.
Iryna Zazymko, come Olena, non se n’è mai andata da Kiev. Ha sessant’anni, è una psicologa. Quando il governo ha deciso la riapertura delle scuole è stata chiamata a gestire il rientro sui banchi della scuola 47. Era lì lunedì mattina. La cosa più difficile per lei non è stata calmare il pianto dei bambini, quanto realizzare che con i missili del dieci ottobre si è rotto un patto di fiducia tra loro e i genitori, tra loro e gli insegnanti, tra loro e il mondo degli adulti. Per tutti i bambini tornati in città dopo un esilio di mesi, la premessa - la promessa - era: possiamo di nuovo sentirci sicuri a casa nostra. Con queste parole avevano varcato il confine in senso contrario, rimesso in ordine le camerette, preparato quaderni e matite colorate. Iryna è tornata alla scuola 47 spiegando agli insegnanti e ai genitori che bisognava dire la verità ai bambini, spiegare la guerra e raccontarne gli effetti. A parole, dice, è riuscita a spiegare molte cose, cos’è un trauma, quali sono, sulla carta, le strategie per fronteggiarlo, poi è arrivata la paura negli occhi dei bambini sotto ai missili dentro una scuola e quella non riesce a spiegarla. La voce dei bambini che chiedono: stiamo per morire? è un peso che le è insostenibile.
La verità che si erano ripromessi di spiegare ai piccoli ha assunto la forma dell’incertezza: «Oggi siamo vivi ma domani non si sa, come si fa a dire questa verità a un bambino?». La sicurezza che avevano garantito loro è svanita, al suo posto è subentrato il fardello di non essere stati in grado di difenderli. Da una parte gli adulti che avevano garantito di nuovo protezione. Dall’altra i bambini che non credono più alle loro parole.
Perché è questo che chiedono i bambini, a gesti e a parole: Chi si prenderà cura di me?
«Ci guardavano come se fossimo stati noi a fare la guerra - dice la dottoressa Iryna Zazymko - ed è comprensibile. Nessuno di noi poteva immaginare l’attacco di lunedì. Un adulto può processare l’imprevedibilità e l’impotenza, nessuno di noi poteva fare niente, ma i bambini in quelle ore stretti nel rifugio non ci guardavano cercando soccorso, ci guardavano con la rabbia che si deve a chi ha tradito un patto».
Quello che la preoccupa, ora, è che per i bambini sarà difficile sentirsi di nuovo protetti tra quelle mura. Si aspetta che molti rifiuteranno di tornare, che molte delle loro famiglie lasceranno di nuovo il Paese.
Iryna Dobrovolska, 31 anni, è una delle madri della scuola 47. Vive nel palazzo adiacente alla Tower 101. Dalle finestre di casa, che non ci sono più, vedeva la scuola. Sua figlia Nadiya in classe non vuole più tornare, «compirà sette anni tra pochi giorni e sa che i russi hanno invaso il nostro Paese, che suo padre è dovuto andare a combattere e un giorno libererà quello che ci appartiene». Iryna dice che le spiega la guerra e, insieme, le insegna la pace. Per lei, pace significa giustizia, e non ci può essere giustizia senza punizione. Prega ogni giorno per questo, non perché chi li ha feriti soffra, ma affinché chi li ha feriti sia sanzionato come deve, come merita.
Non lascia spazio alla rabbia cieca nemmeno raccontando la mattina di lunedì, quando sua figlia l’ha guardata negli occhi dopo il primo missile, e non riusciva a parlare e Iryna l’ha guardata e ha detto solo: «Scusa, scusa perché non riesco a proteggerti».
Da quando ha invaso l’Ucraina, il Cremlino ha spinto le scuole a essere più patriottiche, gli alunni iniziano la settimana con l’alzabandiera e l’esecuzione dell’inno nazionale.
Il primo settembre in occasione dell’inizio del nuovo anno scolastico in Russia, Putin ha tenuto un discorso di un’ora di fronte agli studenti. Ha accusato il sistema educativo in Ucraina di distorcere i fatti storici e di aver contribuito alla creazione di un sentimento anti-russo in Ucraina che rappresentava una minaccia per la Federazione Russa e ha detto che è importante che le scuole in Russia e nelle parti dell’Ucraina occupate si attengano al solo curriculum approvato da Mosca, che in gran parte rinnega la sovranità e la storia dell’Ucraina come nazione indipendente dal 1991.
Non sorprende, è prassi di ogni regime e di ogni fanatismo indottrinare i più piccoli, compromettere il loro futuro alterando la memoria del passato. È parte della campagna di Putin per estinguere lo Stato ucraino e sradicarne l'identità nazionale.
Lo sa la maestra Olena Falko, lo sa la dottoressaa Iryna Zazymko e lo sa Iryna Dobrovolska. Tutte e tre sanno che i loro allievi e i loro figli saranno negli anni a venire, gli ultimi testimoni di questa guerra. Come gli adulti che, attraverso la penna di Svetlana Aleksievic sono tornati ad essere i bambini della seconda guerra mondiale. I bambini che non capivano, o forse capivano fin troppo, che hanno visto per non dimenticare, e che hanno «capito che il tempo si sarebbe esaurito e che a quei bambini, da adulti, sarebbe spettato il dovere di raccontare».
A questo servono le scuole aperte anche in tempo di guerra, a spiegare la morte e la paura, a trovare le parole per la pace a chi porta il peso più grande della guerra: i bambini, perché spetterà a loro essere il tessuto della memoria collettiva di domani.