Anche alcuni arbitri portano la pistola
Può, l’arbitro in campo, portare una pistola alla cintura? Non può. Ma qualcuno l’ha fatto. D’accordo, il direttore di gara deve farsi rispettare, perché ci sono discussioni continue adesso, in tempo di Var, figuriamoci un tempo.
E’ successo in Brasile, durante una partita tra dilettanti, “Brumandinho” contro “Amantese de Vola”. C’è nervosismo in campo, i giocatori se le danno di santa ragione, il pubblico rumoreggia, l’arbitro ammonisce. Viene spintonato, teme di perdere il controllo della gara. E allora che cosa fa? Essendo lui un poliziotto, si ricorda di aver lasciato la pistola nello spogliatoio. Succede tutto in un attimo. Gabriel Murta, questo il suo nome, lascia il terreno di gioco, torna là dove si era cambiato e rieccolo in campo con il revolver.
E’ tutto un fuggi fuggi. I giocatori, svogliati e poco propensi alla corsa, corrono in modo mai visto. Il poco pubblico si affanna verso le uscite. Sono i due guardalinee, con grande coraggio, a convincere Gabriel a lasciare stare. La Federcalcio brasiliana lo sospende. E gli ha consigliato uno psichiatra.
Il secondo episodio è accaduto in Honduras al termine di una partita amatoriale. L’arbitro, accusato di non aver concesso un rigore, viene circondato da alcuni tifosi. Ed eccolo, l’uomo vestito di nero, togliere la pistola dalla cintura che, fino ad allora aveva nascosto sotto la divisa. Non è necessario, a questo punto, premere il grilletto. Scappano tutti e l’arbitro torna negli spogliatoi.
Il terzo episodio è più controverso, è raccontato dal grande Osvaldo Soriano (Mar del Plata 1943 – Buenos Aires 1997), prima calciatore e poi giornalista, nel suo “Pensare con i piedi”. È il 1942. C’è la guerra in Europa e il Mondiale non viene organizzato.
L’Italia è campione in carica (lo ha vinto nel 1938) ma in Argentina, addetti alla costruzione di una diga, ci sono immigrati da tutto il mondo: russi, ebrei in fuga dalla Germania, francesi, spagnoli, polacchi, inglesi e italiani antifascisti. Decidono di organizzare un torneo. C’è da trovare un arbitro. Viene individuato in William Brett Cassidy, figlio del fuorilegge Butch, finito in Patagonia dopo aver svaligiato banche e assaltato treni. Lui arriva con un amico e una ragazza (pare che lei fosse fidanzata di tutti e due, si fanno chiamare “la famiglia dei tre”). I giocatori, è vero, spesso entrano in campo ubriachi, a volte armati di coltello, alcuni hanno spilli per pungere gli avversari, altri hanno polvere di peperoncino da lanciare negli occhi ai rivali. E lui, l’arbitro, chiede e ottiene dagli organizzatori di portare il revolver in campo. I tedeschi, sicuri di vincere, scrivono a Hitler, dicendo di preparare i festeggiamenti. Invece perdono la finale. Verso la fine della partita, arriva sul campo un acquazzone da far paura. Il pubblico fugge, i giocatori pure. E che cosa fa l’arbitro? Si prende la coppa, salta su un cavallo e scappa, con l’amico e la fidanzata. Che hanno in comune. —