Non ci furono né offese né lesioni a uno dei suoi autisti, manager assolto in Cassazione
UDINE. Quando lo aveva riconosciuto colpevole di maltrattamenti nei confronti di un proprio dipendente, il Tribunale di Udine aveva escluso che da tali condotte, ossia dalle ripetute offese e dall’imposizione di ferie e cassa integrazione, fosse derivata una lesione personale grave, come ipotizzato invece dalla Procura. In assenza di una malattia penalmente rilevante, pertanto, l’aggravante era venuta meno.
Era il dicembre del 2018 e per Patrizio Tomada, oggi 69enne, originario di Udine e residente in Colorado, finito nei guai in qualità di allora legale rappresentante della Italsped srl, il processo di primo grado si chiudeva con una condanna a un anno di reclusione (sospesa con la condizionale) e al risarcimento di 30 mila euro di danni alla parte civile, un autista all’epoca 60enne residente in provincia di Belluno.
Poi, però, nel successivo grado di giudizio la vicenda aveva assunto connotati diversi: la Corte d’appello di Trieste aveva riqualificato il fatto proprio nel reato delle lesioni personali, trovandosi così nelle condizioni per un verso di dichiarare il non doversi procedere per intervenuta prescrizione e, per l’altro, di disporre comunque un risarcimento del danno, seppure nella misura ridotta di 12 mila euro.
A mettere la parola fine al procedimento, martedì 29 novembre, è stata la Corte di cassazione, con una sentenza che, annullando senza rinvio quella emessa nell’ottobre del 2020, ha finito per certificare l’insussistenza del fatto di maltrattamenti e cancellare anche la sanzione civile.
Accogliendo in toto il primo dei tre motivi del ricorso presentato dall’avvocato Franco Ferletic, difensore dell’imputato (e assorbiti gli altri due), i giudici di legittimità hanno sottolineato come la Corte d’appello «non avrebbe potuto “ripescare”» un punto della decisione del giudice monocratico di Udine, che le parti legittimate (pubblico ministero e parte civile, rappresentata dall’avvocato Marco Cason) non avevano impugnato, «e sovvertirlo in malam partem, al fine di una riqualificazione del reato» in un altro «la cui sussistenza – hanno ribadito – era stata negata in primo grado».
Era stata appunto la difesa a rimarcare come «il tribunale avesse ritenuto che la patologia depressiva della vittima non potesse essere ricondotta alla nozione di lesione penalmente rilevante. Il che – aveva osservato – equivale all’aver escluso la sussistenza stessa del reato appartenente alla fattispecie complessa», frutto della confluenza tra il reato di maltrattamenti e quello di lesioni gravi.
Nel ricostruire il tormentato periodo lavorativo dell’autista, la Procura di Udine aveva ipotizzato che fosse finito nel mirino del superiore, in quanto «anziano» e «con un elevato stipendio». Un lavoratore in servizio dal lontano 1986 e che Tomada, subentrato nel 2005 alla guida della ditta di autotrasporti, avrebbe denigrato «al solo scopo di spingerlo a rassegnare le dimissioni». Lo stato ansioso depressivo lamentato dal lavoratore era stato riconoscimento dall’Inail come malattia professionale.