L'arte di mantenere la poltrona
Usciti dalle stanze del potere, i 5 Stelle hanno però rispettato gli impegni: abolire la povertà, soprattutto la loro. Così, fra contratti, consulenze, collaborazioni e assegni di fine mandato (quelli che dovevano restituire integralmente), agli ex parlamentari del Movimento viene garantito un sontuoso «reddito di rappresentanza».
Le braccia al cielo. Il pugno chiuso. L’aria sognante. E la frase trionfale: «Abbiamo abolito la povertà!». Settembre 2018: dal balcone di Palazzo Chigi, Luigi Di Maio esulta per l’approvazione del reddito di cittadinanza. Quattro anni dopo, Giorgia Meloni cancella la festante istantanea. Nella Finanziaria si prevede la progressiva scomparsa del sussidio grillino. «Disumano», commenta Giuseppe Conte annunciando rivolta. Ma il leader dei Cinque stelle dimostra rara sensibilità anche verso i colleghi più sfortunati, rimasti senza poltrona per la regola dei due mandati. Volevano aprire il parlamento come una scatoletta di tonno. Si ritrovano a sbranare saporiti filettini, annegati nel miglior extravergine. La più colossale impostura della storia repubblicana. È vero: hanno abolito la povertà. La loro, però. Arriva il reddito di rappresentanza.
Ricordate Paoletta Taverna? Impossibile dimenticarla. Sintesi: ignota segretaria di un poliambulatorio diventa sciantosa vicepresidente del Senato. Da «io nun so’ un politico» a «lei non sa chi sono io». Appena entrata a Montecitorio, ruspante e boccaccesca, le davano della pescivendola. Ha concluso la seconda legislatura in tailleur bianco, misurata e conciliante. Si poteva non premiare? La sua brillante progressione rimarrà scolpita nella pietra, a memoria di futuri emuli. Conte ha deciso di ricompensare l’indiscussa caparbietà con i soldi degli ammirati contribuenti. Ovvero, i fondi dei gruppi parlamentari. Taverna sarà la nave scuola per gli smarriti neofiti. L’importo del contratto di collaborazione è sostanzioso: 70 mila euro l’anno. Moltiplicato per un lustro, teorica durata della legislatura, fanno 350 mila euro.
Stesso trattamento riservato a un’altra leggenda vivente: Vito «Orsacchiotto» Crimi, ex senatore e reggente del Movimento. Sembrava destinato a riprendere il vecchio lavoro: oscuro cancelliere in Corte d’appello a Brescia. Talento sprecato. Piuttosto che le polverose scartoffie, contrattino da 70 mila euro pure a lui: navigator dei neoeletti per un quinquennio.
Uguale sorte potrebbe toccare a un’altra decina di pluridecorati reduci, caduti sotto la tagliola del secondo mandato. Vecchie, indimenticabili, glorie. Gli ex ministri, Danilo Toninelli e Fabiana Dadone, probiviri del partito. O Laura Bottici, garante nazionale. E l’ex tesoriere alla Camera, Claudio Cominardi. Per non parlare di Carlo Sibilia, già sottosegretario, che definì «una farsa» lo sbarco sulla Luna e auspicava l’arresto di Mario Draghi per il crac del Monte dei Paschi. I parlamentari uscenti, nell’attesa, si consolano con la caduta di un altro totem. Avevano promesso, ai tempi gloriosi, di restituire l’assegno di fine mandato? Arriva un sostanzioso sconto: basta il 20 per cento. Insomma: 16 mila anziché 88 mila euro. I rimanenti 72 mila finiranno, dunque, nelle loro tasche.
Impossibile dimenticarli. Lo stesso Grillo aveva avvertito: «L’esperienza di chi può essere utile non deve essere dispersa». Nelle istituzioni, quindi: vita natural durante. Più attaccati al potere dei colleghi vituperati nel «Cozza day». Anno domini 2011. «Devono andarsene tutti quelli che si sono trincerati all’interno del palazzo, abbarbicati come cozze ai loro privilegi» sbraita il fondatore.
Reddito di rappresentanza, invece. C’è un uomo, anzi un semidio pentastellato, che bisogna ringraziare: Roberto Fico. S’è accomodato nei sontuosi uffici riservati agli ex presidenti della Camera. Come quei mitili esecrati dal fondatore. Attaccato ai levigati scogli pure lui. Manterrà persino uno staff con due collaboratori. Alessandro Di Battista, pasionario delle origini prestato ai salotti televisivi, è laconico: «Spero si tratti di una menzogna».
Purissima verità, invece. Come l’attivismo per dare un dignitoso futuro agli ex colleghi più sfortunati. Riassunto della puntatona precedente: grazie all’indomabile Movimento, viene tagliato un terzo dei seggi. A settembre 2019, davanti a Montecitorio, i grillini festeggiano l’epocale sforbiciata. Sorreggono un gigantesco striscione: «Meno 345 parlamentari. Un miliardo per i cittadini». La vituperata casta? Morta e sepolta. Trionfo. Lo scorso luglio l’Ufficio di presidenza della Camera delibera però una diabolica controriforma. La «previsione pluriennale» lascia intatta la «dotazione» per Montecitorio: 943 milioni, pure nel 2023 e nel 2024. Nonostante il taglio degli onorevoli. I soldi destinati ai gruppi passano da 49 mila a 77 mila euro all’anno per deputato. Il gioco delle tre carte.
Per i Cinque stelle, che vantano 52 deputati, fanno 4 milioni: una ventina a legislatura. Serviranno ad assoldare esperti e comunicatori. Come Taverna, Crimi e compagni. Grazie a Fico, appunto. Solo quattro anni fa, nel suo discorso d’insediamento, probo tra i probi, azzannava: «L’epoca dei privilegi è finita». E il taglio degli eletti sarebbe stato solo «il primo passo». L’ultimo, invece, prevede l’addio alle decantatissime restituzioni: il contributo mensile che i parlamentari destinavano a progetti di pubblica utilità, come il fondo per il microcredito.Tutto, o quasi, adesso dovrebbe finire nelle casse del partito.
Promettono di seguire il fulgido esempio anche nei consigli regionali. A partire, ovviamente, dall’Ars, parlamentino siciliano, il più antico e scialacquone d’Italia. Il grillino Nuccio Di Paola, candidato alla presidenza alle ultime elezioni, annuncia: «Se c’è qualcuno che vuole mettersi a disposizione della squadra come tecnico, le nostre porte sono aperte». Altroché: spalancate. Hanno varcato trionfalmente la soglia, come collaboratori, due ex onorevolini: Giorgio Ciaccio e Claudia La Rocca, già condannati a un anno, pena poi prescritta, per le firme false dei Cinque stelle alle comunali di Palermo nel 2012.
Torniamo però alla generosità capitolina. Perfino Grillo potrebbe beneficiarne. O meglio la sua ricca consulenza da 300 mila euro al partito. Il momento, comunque, resta tribolato. Il fondatore è indagato dalla procura di Milano per traffico di influenze illecite, con Vincenzo Onorato. L’inchiesta riguarda un contratto pubblicitario biennale tra Moby, azienda dell’armatore, e la società che gestisce il blog dell’ex comico: 240 mila euro, tra il 2018 e il 2019. Veicolo, ipotizza l’inchiesta, per fare pressioni sui «parlamentari in carica». Il Fatto quotidiano, deponendo usuale benevolenza, riferisce dei messaggi tra l’Elevato e i sottoposti. Il 12 giugno 2019 Grillo, per esempio, scrive all’armatore: «Ho convinto Toninelli a occuparsi della questione a Bruxelles». Il seguente incontro con lo scintillante Danilo, allora ministro dei Trasporti, sarebbe andato benissimo. Ma quando il suo dicastero non versa più la sovvenzione statale, Onorato torna alla carica. Beppe replica di aver «attivato», oltre a Di Maio, ancora Toninelli. Che, anche questa volta, si attiva: «Dovrei aver risolto». Ma non si tratta solo di concessioni. L’armatore chiede di intervenire pure con Unicredit, che gli impedirebbe la vendita di due navi. Grillo gli invia il contatto di Stefano Patuanelli, allora ministro dello Sviluppo economico. Che ora replica: «Mi sono occupato solo dell’amministrazione straordinaria, come per altri casi».
Quella del fondatore è stata una «mediazione illecita», ipotesi della procura, o l’innocuo interesse per un imprenditore in ambasce? Gli ex parlamentari citati nei messaggi minimizzano. O minacciano querele, come Toninelli. Del resto, nessuno di loro è indagato. Il Movimento però s’è mostrato meno comprensivo nel caso dell’inchiesta sulla Fondazione open di Matteo Renzi. È stato chiesto il rinvio a giudizio del leader di Italia Viva e alcuni fedelissimi, come l’ex ministro Maria Elena Boschi. Tra le contestazioni, c’è la stessa ipotizzata per Grillo: «Traffico di influenze illecite». E le 60 pagine di chat, acquisite dalla procura milanese, sono atti che provengono proprio dell’indagine sulla fondazione renziana.
Eppure, un anno fa, il sito dei Cinque stelle rivolge all’ex premier 13 velenose domande: «A tutela del confronto democratico». Conte evoca la questione morale. «Per noi l’etica pubblica non è merce negoziabile». E argomenta: «I rappresentanti delle istituzioni chiariscano le proprie posizioni dinanzi alla magistratura e si assumano le conseguenti responsabilità». Per carità: nessuno osi paragonare «Matteo d’Arabia», quello delle consulenze ai regimi, con il candido Beppe, l’Elevato che continua a battersi per un mondo migliore. E non solo. Grillo ha deciso di riesumare pure la precedente carriera. Tornerà in primavera in scena con l’autobiografico spettacolo teatrale: «Io sono il peggiore».
Pregevole autocritica che non ha fatto Alfonso Bonafede, rivedibile ministro della Giustizia, nonché scopritore di Conte. Vittima del doppio mandato, ha ripreso le redini del suo studio legale, a Roma e Firenze. Certo, la fulminante carriera non l’ha penalizzato. Prima spalleggiava gli squattrinati No Tav. Ora stacca laute parcelle. E continua a fare il coordinatore alla struttura territoriale del Movimento. Capirai. Il riconoscente leader pensa dunque di farlo diventare membro laico del Csm. Anche in questo caso, la smania ridicolizza i trascorsi. Proprio Bonafede, in via Arenula, fu autore di una proposta di legge, poi non approvata, che prevedeva il divieto tas-sa-ti-vo per parlamentari e ministri di venir nominati a Palazzo dei marescialli. Siederà comunque sulla prestigiosissima poltrona? Tra i titoli necessari, ne è stato appena aggiunto uno: l’esercizio «effettivo» della professione di avvocato per almeno 15 anni. Requisito che taglierebbe fuori l’ex Guardasigilli.
Anche gli scissionisti si adoperano. Prima però hanno cercato di aggirare il cappio: rielezione sotto mentite spoglie. A dicembre 2018 Luigi Di Maio, allora capo politico del Movimento, giurava: «La regola dei due mandati non è mai stata messa in discussione e non si tocca. Né quest’anno, né il prossimo, né mai. È certo come l’alternanza delle stagioni». Assieme a una nutrita pattuglia di devotissimi, quasi quattro anni più tardi, tenta di invece sovvertire il comandamento. Nasce Impegno civico. Disfatta leggendaria. Tutti a casa? Macché. Non si sono persi d’animo neanche loro. Angelo Tofalo, ex sottosegretario alla Difesa, per esempio. È rimasto nel ramo. Con un certo esito, tra l’altro. Prima apre una società di intelligence, cybersicurezza e difesa: At, come le sue iniziali. Poi viene nominato nel comitato consultivo del Cesma, organismo tecnico-scientifico dell’Aeronautica. Del resto, con i vertici del centro studi c’è antica e salda autostima. Cominciata mentre Tofalo era al governo.
Last but not least, c’è Di Maio. Fondatore della naufragata scialuppa dei reprobi, ma soprattutto ex ministro degli Esteri. Una giovane vita spesa a sbranare cadregari e voltagabbana, per poi trovarsi così. L’abisso che si spalanca alla fine di un’incredibile carriera: da vicepresidente della Camera, il più giovane di sempre, e poi ancora su, fino alla Farnesina. Ma arriva la batosta alle elezioni: 0,6 per cento. Sbam! E adesso? L’Unione europea vorrebbe ricompensarlo per i servigi svolti con un incarico strepitoso: inviato speciale nel Golfo Persico. Anche lo stipendio è eccellente: 12 mila euro netti al mese. Da ripartire, almeno stavolta, su tutti i contribuenti continentali. Certo, Giggino con l’inglese ancora fatica. L’unico Golfo che ha bazzicato, nella sua pur trionfale esistenza, è quello di Napoli. Però, sai che soddisfazione... L’inventore del reddito di cittadinanza, ormai disoccupato, che trova un lavoro favoloso. Almeno lui. E senza neppure passare da un centro per l’impiego.