Come “Abitare il presente”: tra pandemia e guerre riapre la Scuola di filosofia a Trieste
TRIESTE Sono trascorsi dieci anni dall’inaugurazione della Scuola di filosofia di Trieste, ideata da Pier Aldo Rovatti.
Dieci anni in cui sono stati affrontati temi sempre legati alla contemporaneità e il cui obiettivo è l’esercizio critico del pensiero, esercizio di cui c’è sempre più bisogno.
Una scuola per tutti tra l’altro, frequentata non solo da studenti, ma da persone di tutte le età e di diverse formazioni, non a caso l’indice di frequentazione è molto alto. Soprattutto è sempre stata in forte sinergia con la storica rivista “aut-aut”.
E lo è sempre di più, tanto che l’ultimo fascicolo ha pubblicato un report del ciclo di studi dello scorso anno. “Abitare il presente” è il titolo del nuovo programma – con corsi e laboratori di filosofia contemporanea da gennaio ad aprile – che verrà presentato giovedì al Caffè San Marco alle 18. A farlo i tre coordinatori dei cantieri, come si chiamano i gruppi tematici, “Abitare le parole”, “Abitare il corpo in un mondo inabitabile” e “La guerra è / e il presente”, rispettivamente guidati da Pier Aldo Rovatti, Mario Colucci e Raoul Kirchmayr.
Da quest’anno poi la scuola torna in presenza – con sede nella Direzione del Dipartimento di salute mentale – con la possibilità di molteplici collegamenti da remoto.
“Abitare” quindi è la parola chiave del ciclo di incontri: «“Abitare” potrebbe essere una parola che recepiamo come scontata – dice il filosofo – ma coniugata con la parola “presente” diventa qualcosa di meno ovvio: c’è difficoltà sia nello stare nel presente, sia nel sapere cosa significhi questo “stare”. Entriamo quindi in una situazione dialettica. La scuola non vuole dare indicazioni filosofiche specifiche, ma attraverso la filosofia vuole mettere in dubbio la questione. E lo fa anche con momenti di confronto diretto con i corsisti nei laboratori coordinati da Annalisa Decarli, Vincenza Minniti e Alessandro Di Grazia».
Il primo cantiere, Abitare le parole, mi pare un tema arduo in un presente in cui le parole vengono “alterate” al limite della comunicazione.
«Abbiamo scelto alcune parole tra cui “ascolto”, “abitare”, “accelerazione” che è parola che ha a che fare molto con la digitalizzazione, “linguaggio”, parola che potremmo pensare semplice e che invece nasconde una serie di trabocchetti, “silenzio” termine che verrà affrontato da Vera Gheno, la parola “legge” esaminata invece da Massimo Recalcati. E poi “metamorfosi” grazie a Marco Pacini. Abbiamo scelto alcune parole che potrebbero essere una chiave per entrare nelle problematiche in cui siamo».
Parole sempre coniugate al presente?
«Un presente che a sua volta è un problema. Proprio la coppia “abitare” e “presente” potrebbe sembrarci abituale, di fatto è molto complessa. Qualcuno dice che non siamo mai stati in una situazione presente così complicata, facciamo fatica a coniugare il presente con il passato, qualcuno addirittura lo cancella come sappiamo da tutta una cultura della cancellazione, qualcuno ne privilegia solo alcuni aspetti. In realtà il passato non è un supporto, non è qualcosa che ci sta alle spalle per aiutarci a dire: questo è il passato, quindi il presente va in quella direzione lì. D’altra parte c’è anche un futuro che è un punto interrogativo. Verso che futuro stiamo andando? Ecco allora il tentativo di guardare al presente, cercando di avvicinarlo, tramite alcune parole significative».
Il secondo cantiere invece parla di corpo. Qual è il sintomo che ci comunica?
«Il secondo cantiere ha uno sguardo più rivolto alla psicoanalisi. Qui il corpo diventa un elemento di patologia, infatti gli antropologi Roberto Beneduce e Simona Taliani parleranno della patologia della cittadinanza e del corpo dell’altro nella etnopsichiatria clinica. Un altro tema è la questione del corpo con riferimento all’adolescenza, è il caso dell’intervento dello psicoanalista Francesco Stoppa. Inoltre ci saranno una serie di riferimenti al tema dell’anoressia e del corpo tatuato. Il problema tutto sommato è come e se riusciamo a fare nostro il corpo e in che misura invece rimane distaccato creando tutta una serie di questioni».
Abitare la guerra invece che significa, da spettatori impotenti?
«Si tratta di vedere se facciamo coincidere il nostro presente con un presente conflittuale o se possiamo solo congiungere il presente alla guerra rispetto un’idea di guerra tenuta più a distanza. Gli interventi si rivolgeranno soprattutto al primo punto, cioè al fatto che, in definitiva, c’è un elemento di guerra implicito al nostro presente da cui non riusciamo a liberarci. Pierangelo Di Vittorio affronterà il tema “Guerra e trauma”, Andrea Muni esaminerà il conflitto sociale e le guerre civili, Raoul Kirchmayer guarda al\la guerra tra spettacolo e simulacro, Edoardo Greblo indagherà le guerre ibride mentre Massimiliano Spanu tratterà il rapporto tra guerra e cinema. Quindi la parola “guerra” è intesa da più punti di vista, come la usiamo e come siamo predisposti a pensare sia qualcosa che sta fuori, ma di fatto sta anche dentro di noi».
Dalla pandemia all’attuale guerra in Ucraina, il mondo è diviso in due, quali sono i motivi che portano a questa lapidaria divisione di pensiero?
«Io tornerei al titolo dell’ultimo cantiere: “La guerra è / e il presente”, qui c’è una sorta di oscillazione, noi siamo contemporaneamente da una parte e dall’altra. Da una parte osserviamo gli elementi del conflitto, dall’altra però ne siamo all’interno, incapaci di uscire dal pensiero binario mentre siamo sempre in una situazione ibrida, di sì e di no al contempo. Essere conflittuali e al tempo stesso non esserlo è ciò che dobbiamo elaborare a livello di pensiero e non è assolutamente facile».