Una querela non fa regime
Anni fa, quand’ero direttore del Tempo di Roma, feci un titolo sulla chiusura dei manicomi. Il 31 dicembre del 1996, infatti, una legge sciagurata chiuse gli ospedali psichiatrici senza aprire le residenze per persone affette da disturbi mentali. In migliaia finirono sulla strada, abbandonati dalla Sanità pubblica e lasciati alle famiglie o a sé stessi, e le conseguenze di una simile scelta le misuriamo ancora oggi. Se ricordo quell’inchiesta giornalistica, non è per commentare l’ennesimo dramma della follia, ma per segnalare che il titolo con cui accusavo il governo di condannare pazienti e parenti a rimanere senza aiuto si guadagnò una querela. In prima pagina me l’ero presa con il presidente del Consiglio, che ai tempi era Romano Prodi, ritenendolo responsabile di quella che dal mio punto di vista si sarebbe rivelata una tragedia. E che il governo se ne stesse lavando le mani era vero, ma evidentemente al premier non faceva piacere che lo si dicesse a chiare lettere e dunque il titolo a sette colonne lo infastidì a tal punto da annunciare, con un comunicato di Palazzo Chigi, di aver dato mandato ai suoi legali di denunciarmi.
Naturalmente si tratta di una storia vecchia, ma mi è tornata in mente nei giorni scorsi, allorquando Roberto Saviano si è lamentato per le citazioni in giudizio che ha ricevuto da Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Gennaro Sangiuliano. Dalle pagine del Corriere della Sera l’autore di Gomorra si è atteggiato a vittima, denunciando un clima d’odio, che a suo dire mirerebbe a intimidirlo e a imbavagliare la stampa. Insomma, per l’importante collega saremmo prossimi al regime e, immagino, anche alla creazione di un Minculpop, ovvero di un ministero della Cultura popolare che, come ai tempi di Mussolini, avrebbe il compito di vigilare sull’informazione imbavagliandola. Essendo io un direttore di lungo corso, che negli ultimi trent’anni ha avuto a che fare con presidenti del Consiglio di destra e di sinistra, criticandoli quando era il caso, mi permetto di ricondurre l’allarme a quel che è, ovvero a una querela per diffamazione, che nulla ha a che fare con la censura e la dittatura. Le denunce sono la regola per chi fa questa professione, in particolare se la fa senza imbarazzi né condizionamenti. Diciamo che è un po’ un rischio del mestiere, come una slogatura per il calciatore. Vuoi dribblare e tirare in porta? Sai che rischi uno strappo, ma il pericolo è ben retribuito e dunque non è il caso di fare il martire. O per lo meno, non troppo.
Ricordo ai colleghi che dopo Prodi ho ricevuto querele e minacce di denunce da molti altri presidenti, mentre, come è a tutti noto, per tapparmi la bocca un paio arrivarono al punto di farmi licenziare. Però nessuno di coloro che oggi esprimono preoccupazione per le sorti della libertà di stampa si indignò, nessuno invocò a mia difesa l’articolo 21 della Costituzione e nemmeno paventò il pericolo di un regime illiberale. Un premier, più mellifluo, nel salottino di Palazzo Chigi mi avvisò che lui, da avvocato, non perdeva una causa. Come dire: giornalista avvisato, mezzo salvato. O magari imbavagliato. Mentre un presidente della Repubblica mi fece dono di due denunce per vilipendio, ovviamente nascondendosi dietro la formula dell’atto dovuto, cioè fingendo di non saperne nulla. E, a differenza delle querele ricevute da Saviano, che nel peggiore dei casi potrebbero risolversi con un risarcimento pecuniario, rammento che l’articolo 278 del Codice penale punisce chiunque offenda il presidente della Repubblica con una pena che può variare da uno a cinque anni. E però, anche allora, tutti zitti. Dall’Ordine dei giornalisti ai colleghi che ora si indignano, Saviano compreso, nessuno parlò di clima d’odio contro i cronisti, né di regime.
Dunque, cari colleghi, non siate ipocriti: le querele sono sempre arrivate, solo che siccome fino a ieri non colpivano voi, le avete ignorate, facendo finta di non vedere. Anzi, godendo in segreto che un giornalista, non proprio vicino alla vostra parte politica, venisse silenziato. Non dico che mi piacciano le denunce dei presidenti del Consiglio, ma di sicuro mi piacciono meno i due pesi e due misure da voi sempre usati.
Aggiungo un’ultima considerazione: le querele di Meloni, Salvini e Sangiuliano sono state presentate tempo fa, cioè prima che questo governo nascesse, quando l’attuale presidente del Consiglio era una deputata, il ministro delle Infrastrutture un senatore e quello della Cultura un giornalista. Dunque, all’epoca non rappresentavano alcun regime intenzionato a tappare la bocca alla libera stampa. Semmai era il «regime» di una stampa conformista che voleva tappare la bocca all’opposizione. Tuttavia, quando Saviano e compagni vorranno parlare di libertà di stampa e non solo di loro stessi, li prego di chiamarmi: sono pronto ad aprire il mio archivio, con i nomi di ex presidenti del Consiglio, ex ministri e onorevoli in servizio permanente. Forse così vi sentirete meno soli. E, soprattutto, non vi dichiarerete perseguitati politici del nuovo fascismo.