Letizia, dall’equitazione al tiro con l’arco dopo l’incidente in gara: «Che emozione l’argento agli assoluti»
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foto da Quotidiani locali
«Quando il mio sport era l’equitazione, il mio istruttore mi spronava sempre, dopo una caduta, a rialzarmi e a rimontare subito in sella. Un insegnamento che mi è stato utile dopo l’incidente».
La neo vicecampionessa italiana indoor di tiro con l’arco paralimpico Letizia Visintini, 44 anni di Corno di Rosazzo, ha un passato nell’equitazione, che si è interrotto nel 2013 con una caduta che le ha causato la paraplegia, e un presente da arciera di alto livello, sport iniziato nel 2016, che le fa sperare, un giorno, di coronare il sogno olimpico.
Letizia, lei è fresca di un argento tricolore vinto a Faenza. Un risultato prestigioso.
«Nella competizione di classe, fra tutti i Seniores, non sono andata benissimo e mi sono classificata quarta. Invece negli assoluti a eliminazione sono riuscita ad arrivare in finale vincendo due gare, una per 6-2 e una per 7-1. Mi sono arresa solo a Enza Petrilli, che lo scorso anno ha vinto i Mondiali a Dubai ed è fortissima».
Perché il tiro con l’arco?
«Dopo tre anni dall’incidente ho deciso di ricominciare a fare sport e ho scelto una disciplina nella quale potessi essere autosufficiente. Ho iniziato il mio percorso nella società Arcieri Cormons dove gareggio tutt’ora e che possiede una pedana di tiro tutta in cemento anche per i bersagli a 70 metri, offrendomi le condizioni migliori».
Una passione condivisa con la famiglia?
«Certamente. Mio marito Gian Luca ha iniziato a tirare assieme a me ma poi ha scelto un’altra strada ed è tecnico di tiro con l’arco. Ora sta acquisendo il brevetto per allenare gli atleti paralimpici ed era accanto a me a Faenza. Le nostre figlie Veronica e Caterina, che al momento dell’incidente avevano sei e quattro anni, sono le mie più grandi tifose».
Che doti servono per distinguersi in questo sport?
«Tirare con l’arco significa mettersi costantemente a confronto con se stessi, cercando di fare sempre meglio per riuscire a sbagliare meno dell’avversario. C’è un grande lavoro di testa, infatti mi sono affidata anche a una psicologa sportiva».
Ci sono grandi differenze fra l’arco olimpico e quello paralimpico?
«Quasi nessuna, tant’è che alle Olimpiadi possono partecipare anche atleti e atlete con disabilità come la mia, come accade alla campionessa Elisabetta Mijno. Quando gareggiamo outdoor, in estate, col bersaglio a 70 metri, chi è in carrozzina deve fare i conti con traiettorie diverse e con una posizione di tiro differente. Poi se le competizioni sono sullo sterrato, basta una radice a inclinare la carrozzina e a costringerci a riassettare il tiro».
Sogna una gara a cinque cerchi?
«In questo momento alle Olimpiadi partecipano solo due atlete per nazione e l’Italia è rappresentata proprio da Petrilli e Mijno che sono entrambe delle supercampionesse. Per quanto mi riguarda faccio già parte di un gruppo di interesse nazionale che svolge periodicamente dei raduni e che, di fatto, è la squadra azzurra di riserva. Quindi non demordo e gareggio il più possibile».
Il prossimo impegno?
«Il 12 febbraio quando affronterò a Cervignano del Friuli le finali regionali, nelle quali sarò l’unica in carrozzina. Non sarà una gara facile».
Al primo amore, l’equitazione, è ancora legata?
«Assolutamente, come ho detto mi ha insegnato tanto e mi ha aiutato ad affrontare le conseguenze dell’incidente. Tante persone di quel mondo, come la presidente del maneggio che frequentavo, Angela Linda, mi hanno dato forza e sostenuto nella seconda parte della mia vita».