Obsolescenza programmata, quali sono i falsi miti che (ancora oggi) resistono?
Per parlare dell’obsolescenza programmata occorre, in primis, dare una definizione all’obsolescenza programmata: si tratta di un’espressione utilizzata per fare – come scritto sulla Treccani – «riferimento al processo mediante il quale, nelle moderne società industriali, vengono suscitate nei consumatori esigenze di accelerata sostituzione di beni tecnologici o appartenenti ad altre tipologie».
Si tratta di un processo che «viene attivato dalla produzione di beni soggetti a un rapido decadimento di funzionalità, e si realizza mediante opportuni accorgimenti introdotti in fase di produzione (utilizzo di materiali di scarsa qualità, pianificazione di costi di riparazione superiori rispetto a quelli di acquisto, ecc.), nonché mediante la diffusione e pubblicizzazione di nuovi modelli ai quali sono apportate modifiche irrilevanti sul piano funzionale, ma sostanziali su quello formale». Detto in parole povere?
L’obsolescenza programmata è quel processo avviato sin dalla produzione del bene tecnologico e che vediamo, in particolar modo, nel mondo degli smartphone: come potremmo mai cambiare il nostro cellulare – considerato che vengono buttati fuori nuovi modelli ogni anno – se ogni smartphone durasse anni, se le riparazioni non costassero più che prendersi un nuovo smartphone (anche se l’antitrust provvede a fare multe alle marche che più sfruttano la questione), se non fossimo continuamente bombardati da pubblicità e marketing che ci convincono della necessità di avere l’ultimo modello no matter what? Cerchiamo di fare ordine, partendo dalla definizione, per capire quali sono le realtà concrete legate a questo concetto e quali – invece – i falsi miti di cui, nel corso degli anni, l’obsolescenza programmata è stata rivestita.
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L’obsolescenza programmata come specchio e ricatto del consumismo
Impossibile non legare a doppio il concetto di obsolescenza programmata a quello di consumismo. La prima è espressione del secondo e il secondo prende linfa dalla prima. A dirla tutta, l’obsolescenza programmata possiamo vederla in tutti gli ambiti economici e dell’industria per una semplice ragione: se creo un capo, un frigorifero, uno smartphone, un computer – e via dicendo – che dura molto ed è facilmente riparabile in maniera economica, dove finiscono tutte quelle persone che lavorano in queste industrie?
Da qui nasce l’opportunità – per dare e mantenere posti di lavoro – di fare del fast fashion e di sfruttare l’obsolescenza programmata per tutti quei beni le cui continua produzione fa girare l’economia. Una sorta di ricatto che mette da un lato i posti di lavoro di moltissime persone e dall’altro gli effetti che questa produzione dirompente – a partire dalla produzione di rifiuti – ha; un ricatto rispetto al quale la posizione che abbiamo tenuto finora è evidente ed altrettanto evidente è l’insostenibilità di quello che abbiamo scelto di fare. Basti pensare, ad esempio, che l’ultimo rapporto di Deloitte Digital Green Evolution riporta come – in media – ogni italiano possieda in media quattro dispositivi digitali con gli smartphone che vanno per la maggiore.
I falsi miti sull’obsolescenza programmata
L’Obsolescenza programmata è – come abbiamo visto – una realtà conclamata che sta alla base della nostra economia capitalistica. Quando se ne è cominciato a parlare seriamente e in maniera più diffusa, più o meno una decina di anni fa, c’erano sicuramente dei falsi miti che giravano in merito alla questione.
C’è la questione dell'”oggetto ovviamente programmato per rompersi appena la garanzie non è più valida. Quanto c’è di vero? Al netto del fatto che non tutte le ciambelle escono col buco – e che quindi sia normale, ogni tot apparecchi, che un certo numero sia difettoso e necessiti di essere cambiato in tempi brevi – non ci sono evidenze rispetto a questo complotto delle aziende che tarano gli apparecchi affinché smettano di funzionare appena trascorso il tempo di garanzia.
C’è poi quella che viene chiamata “obsolescenza percepita”, quella che ci spinge a dire “tanto è fatto per rompersi entro un tot di tempo”. Proprio questo ragionamento fa sì che siamo noi, in prima battuta, a non prenderci cura degli elettrodomestici come dovremmo, convinti che ripararli costi più che acquistarne uno nuovo e presi dalla smania dell’ultimo modello. A chi non è capitato, almeno una volta, di sostituire uno smartphone ancora funzionante con un nuovo modello (anche della stessa marca) che non risulta essere obsoleto?
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