Il Quattrocento in mostra: miracolo a Ferrara
A Ferrara nasce la Padanìa. Quando nel 1932 Renzo Ravenna e Arturo Giglioli, per celebrare il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto, propongono L’Esposizione della pittura Ferrarese del Rinascimento, con maestri ancora poco conosciuti, non possono prevedere che essa diventi la palestra per l’esercizio critico e letterario di Roberto Longhi nella sua Officina ferrarese che uscirà nel 1934, lo stesso anno in cui lo studioso sarà chiamato alla cattedra di Storia dell’arte dell’Università di Bologna.
Il suo corso si aprirà con la prolusione Momenti della pittura bolognese ed emiliana. In quella occasione, nell’ambito circoscritto dell’arte e della letteratura, Longhi definirà un’area geografica con caratteristiche distinte dalle prevalenti tradizioni artistiche fiorentina e veneziana, che appunto chiamerà, contagiando i suoi allievi, Padanìa. Fuori da questo ambito non si è avuta percezione né considerazione per questa apertura, tramandata a tutti gli studenti dell’Ateneo bolognese, e circostanti, se il neologismo geografico-storico-antropologico, coniato dal Longhi non viene registrato nella genealogia della Padanìa.
Ma se Ferrara e la sua pittura sono la prima rivelazione «padana» di Longhi, dopo la preziosa connotazione «metafisica» di De Chirico, il suo insegnamento a Bologna sembrò muoversi in una direzione che, tra Emilia e Lombardia, escludeva o lasciava in uno splendido isolamento l’esperienza degli artisti ferraresi. Il primo allievo di Longhi, infatti, e mio maestro, Francesco Arcangeli, nel definire il «campo» dove si esprimevano i tramandi di una condizione psicologica che si manifesta come «una tradizione inconsapevole, di costume e di vita altrettanto che d’arte», indica i nomi di poeti, scultori, pittori padani: «Qualche cosa che, in questa pianura, sotto lo sguardo lontano dei monti, nacque, si consumò, si rinnovò nei secoli: fu Catullo, Virgilio, Lanfranco, Wiligelmo, Vitale da Bologna, Foppa, Boiardo, Giorgione, Lotto, Folengo, Moretto da Brescia, Ruzzante, Lodovico Carracci, Caravaggio, Frescobaldi, Fra Galgario, Crespi, Vivaldi, Ceruti, Canaletto, Porta, Fontanesi, Nievo, Verdi.
In tutti questi lo stile fu implicito, anche quando fu più evidente: prima fu la passione, l’elegia, l’oratoria persino; prima i sensi profondissimi e certi, o la loro solenne malinconia». Non ci sono i pittori di Ferrara.
Ma non c’è dubbio che il punto di partenza di queste riflessioni, che i suoi allievi faranno proprie, è in quella rivoluzionaria «officina ferrarese» che rende universale una scuola provinciale. Ricordo, alla prima lettura della mirabile «Officina», quanto mi colpì l’accostamento, a suo favore, di Ercole de’ Roberti a Leonardo da Vinci, grande toscano naturalizzato lombardo. Da qui si può partire, per intendere il senso della mostra sul Rinascimento a Ferrara, che non è una replica di quella del 1933, ma un percorso ardito, in quattro tempi, con cui si compie l’impresa di 90 anni fa, prescindendo, se non sul piano indiziario, da Cosmè Tura e Francesco del Cossa ai quali, in Palazzo dei Diamanti (in questa occasione risorto), sono già state dedicate mostre recenti.
È evidente che partire da De’ Roberti significa partire da Ferrara perché il suo maestro, Del Cossa, si svolge, nella sua produzione matura, a Bologna con opere assai notevoli, come il Polittico Griffoni, la Madonna del Baraccano, la Pala dei Mercanti. Ercole, che attendeva una focalizzazione diretta, segue Francesco del Cossa a Bologna. Nondimeno Longhi scrive: «Che vanto per una città sapere esprimere dai propri fianchi un genio così solennemente abissale, sorto non tanto per ispirazione divina quanto per una predestinazione civica e terriera, che lo astringe, per dir così, a una sublimità d’eccezione! Per merito di Ercole, Ferrara siede, verso l’ultimo decennio del secolo, più alto che qualunque altro punto d’Italia».
Ferrara dunque. Ma con la trasmigrazione di pittori così grandi, Del Cossa, De’ Roberti e, con loro, Lorenzo Costa e poi, anche se non noto ai tempi del Longhi, Antonio da Crevalcore, a Bologna, si apre la questione di un Rinascimento bolognese con attori ferraresi che ha comportato anche una riflessione sul titolo di questa mostra, almeno nel suo primo tempo: «Rinascimento a Ferrara» o «Rinascimento di Ferrara»? «Rinascimento ferrarese» o «Il Rinascimento di Ferrara», che si è sciolto, poi, con la prima formula. Il tema è affrontato con grande consapevolezza dal più apprezzato allievo di Carlo Volpe, Daniele Benati, nel saggio Oltre l’Officina ferrarese: la riscoperta del Rinascimento a Bologna.
In questo caso non possiamo immaginare altra formula che Rinascimento a Bologna, dove si svolge una parte cospicua dell’attività dei pittori ferraresi. Eloquente l’esordio del saggio nella storica rivista longhiana Paragone: «A proposito del saggio Tre vetrate ferraresi e il Rinascimento a Bologna, Carlo Volpe era solito raccontare che, pur avendolo inviato a Paragone, Longhi, che in genere si mostrava sollecito nei sui confronti, in questo caso aveva dilazionato la pubblicazione. Quando Stefano Bottari fondò a Bologna Arte antica e moderna, Volpe richiese indietro il dattiloscritto per pubblicarlo in quella nuova sede e Longhi glielo restituì senza alcun commento. Pur non avendolo dichiarato apertamente, il maestro era forse rimasto contrariato da un intervento che, a soli due anni dall’edizione definitiva dell’Officina ferrarese, ne metteva in discussione alcuni punti nodali.(…) Venivano messi in secondo piano, a favore della sola Ferrara, altri centri che pure avevano giocato un ruolo lo decisivo nella vicenda del secondo Quattrocento padano. Era il caso soprattutto di Bologna, dove alcuni degli stessi pittori ferraresi avevano lasciato le prove più ragguardevoli del loro catalogo».
Verrà il giorno, come da tempo auspico, che si faccia a Bologna, invece che una semplice ricostruzione del Polittico Griffoni, per altro sulla scorta delle indicazioni di Longhi, una mostra sul Rinascimento a Bologna nella quale giochi un ruolo fondamentale la presenza assoluta di Niccolò Dell’Arca che offre una matrice plastica per le invenzioni di Del Cossa e De’ Roberti che si desume in modo inoppugnabile dall’accostamento fra il San Domenico della Fondazione Cavallini Sgarbi e la Pala dei Mercanti con i suoi corruschi ritratti in vesti di San Petronio e San Giovanni. Allora, al centro di quella mostra sarà inevitabile avere il maestro di origine culturale ferrarese che costituisce la presenza più originale di quest’occasione con i suoi capolavori mai prima d’ora esposti in pubblico. Mi riferisco ad Antonio da Crevalcore, che è il cuore della mostra ma lo sarebbe necessariamente anche per quella qui auspicata del Rinascimento a Bologna.
Per evidenti ragioni, a partire dalla ormai acclarata presenza del suo trittico o polittico in San Petronio a Bologna, vicino al San Gerolamo di Lorenzo Costa, di affine concezione. E forse proprio in questo potente e raffinato artista, nato in territorio bolognese ma di formazione ferrarese, si ravvisano i caratteri precipui di una declinazione bolognese del Rinascimento ferrarese, nella fortissima accentuazione plastica delle forme, dai panneggi alle peculiari nature morte. Appare un segno del destino che in questo percorso io sia stato accompagnato da due fortune: la prima, il ritrovamento del primo San Domenico di Niccolò dell’Arca, concepito nella stagione dei ferraresi a Bologna, tra 1474 e 1475, in equilibrio fra realismo e rigore. La seconda, l’apparizione nello studio di Carlo Volpe del Trittico di Antonio da Crevalcore, su cui lo studioso aveva posato gli occhi subito prima di morire. Lo vidi a casa sua, sul catalogo Sotheby’s della vendita a Montecarlo del Trittico proveniente dal castello d’Etrepy. Ne parlai con l’allieva prediletta di Volpe, Lucia Peruzzi, in quel triste giorno, il 3 febbraio 1984. Pensai che fosse necessario non perderli e ne proposi l’acquisto a Roberto Memmo, e partecipai con lui all’asta, superando le offerte numerose (di una era stato «advisor» Zeri).
Fu una serata memorabile ed emozionante. Il mecenate aveva contribuito al riconoscimento di uno sconosciuto pittore del Rinascimento ferrarese. Gli piacque molto che io indicassi l’anagramma dell’autore sulle sparse lettere sull’ara del San Pietro, e avessi programmato articoli e una monografia (la prima) su Crevalcore. Così il pittore entrò prepotentemente tra i grandi maestri del Quattrocento ferrarese. E Memmo iniziò a concepire la sua Fondazione in palazzo Ruspoli. Dopo quasi quarant’anni, ora, per la prima volta al mondo, i grandi teleri si vedono in un museo pubblico, coronando i pensieri, e credo ormai desideri, di Carlo Volpe. Ferrara riafferma il suo primato, ma Bologna attende il suo Rinascimento, in dialogo e con i maestri della città sorelle, capitali della Padanìa longhiana, che il grande critico volle tenere separate e lontane. Oggi il quadro, prefigurato da Volpe, è più chiaro, e nel 1980 la sua scoperta dell’affresco con la Natività di Paolo Uccello, lo rese anche più evidente, e lo attesta la mostra su Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna, sia pure soggiogata, non più da Ferrara, ma da Roma con il titolo prevalente, certamente corretto, ma «romacentrico» Giulio II e Raffaello, a cura di Daniele Benati, allievo fedele di Volpe.