Duemila anni di tradizioni vitivinicole: quando l’economia abbraccia la storia
foto da Quotidiani locali
La cultura vitivinicola in Friuli vanta ben duemila anni di storia documentata e l’evoluzione della produzione del vino si lega strettamente alla storia locale. Comincerà venerdì 3 marzo “Friuli diVino” un ciclo di lezioni promosse dalla Saf con storici ed enologi. Fra i relatori ci sarà Enos Costantini, fra i massimi esperti regionali del settore e noto divulgatore, che qui traccia la storia del paesaggio friulano da sempre profondamente legato alla coltivazione della vite.
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Chi attraversa la pianura friulana vede terra marron che volgerà al verde con mais e soia nella tarda primavera. Ora si nota qualcosa di orzo e di colza; laggiù nella Bassa frumento e pioppi. S’incontrano francobolli più o meno estesi a vigneto, con schiere di viti allineate e coperte come soldatini sul piedarm.
Fu sempre così? No, non fu mai così. Dall’epoca romana, e forse anche da prima, fino alla fine del XIX secolo, l’intera pianura era una fantastica vigna con filari distanziati quel tanto da consentire la coltivazione dei cereali. Anche nelle zone meno vocate all’uva e al grano. Perché? Per più motivi. Il principale era che i coldiretti non esistevano, essendo i coltivatori tutti fittavoli o mezzadri. E i parons chiedevano come affitto derrate conservabili, trasportabili e facilmente smerciabili: vino e frumento.
Le viti si arrampicavano su alberi tutori opportunamente disposti lungo il filare, in un matrimonio che vedeva la condivisione della sfera radicale e la competizione per la luce tra la chioma dell’albero, solitamente un olmo, e le foglie della fruttifera liana che saliva per un posto al sole onde tradurre l’energia fotonica dell’astro in zuccheri nelle croccanti bacche.
La vite tuttavia non s’accontentava e, formando robusti cordoni, correva a festoni tra un albero e l’altro, formando un paesaggio che incantava i visitatori germanici, ma era diuturna fatica per i friulani.
All’interno di un filare le varietà di vite erano numerose, oggi si direbbe un’ampia piattaforma ampelografica, o una grande biodiversità.
Per fare confusione? In un certo senso sì perché i notturni malintenzionati potevano trovare poco agevole sottrarre contemporaneamente un’uva acerba assieme a un’uva stramatura. Inoltre, ogni varietà portava del suo: una gli zuccheri, l’altra gli acidi, l’altra ancora gli aromi.
E vi era maggior resilienza perché se l’annata era sfavorevole alla varietà A, vi erano delle buone probabilità che fosse favorevole alla varietà B.
In lingua italiana le varietà di vite si dicono vitigni. Quanti erano i vitigni? Tanti. Il Vocabolario friulano detto Nuovo Pirona (anni Trenta del Novecento) ne elenca 303. Personalmente ne ho contati oltre 600. Uno sterminio. Ora se ne coltivano una manciata, in buona parte di origine forestiera quali l’invadente Pinot grigio.
Siamo, fin che dura, una civiltà della specializzazione. E gli altri? Polvere della storia. Ognuno, peraltro, con la sua storia ché le vicende della nostrana Ribolla gialla non sono quelle del francese (ma sì!) Tocai.
Una data da ricordare: 1850, anno in cui arriva la prima delle ampelopatie yankee che mettono in ginocchio il Vigneto Friuli. Il suo nome: fumate de vît. Ne narra pure Ippolito Nievo.
Da lì comincia il rarefarsi della nostra genetica viticola e l’arrivo, giustamente voluto dalla allora classe dirigente (allora c’era una classe dirigente), di vitigni prevalentemente dalla terra di Francia: e furono Merlot, Cabernets, Pinots con Tocai al seguito.
Trovato un rimedio nello zolfo contro la fumate, ecco che si presenta la peronospora a continuarne l’opera funesta. Trovato nel rame un rimedio contro quest’ultima arriva, nancje di dîlu, una nuova peste, sempre yankee, sotto forma di un subdolo pidocchio che prende il nome di fillossera.
Lì non ci sono santi: nessun rimedio chimico funziona. Solo l’innesto della vite europea su piede di vite americana risolve il problema.
Nasce la vivaistica viticola, Rauscedo ringrazia e il numero di vitigni coltivati si fa sempre più esile perché i vivai di inizio Novecento non potevano offrire una congerie di varietà su più portinnesti, ma dovevano concentrarsi sulle più valide secondo i criteri dell’epoca.
Furono Riesling, Verduzzo e Tocai per i bianchi, Refoscone, Merlot e Cabernet per i neri. Voi chiederete: e il Prosecco? E la Ribolla gialla? Non entro nella cronaca. Dal fondo si ode una voce: e il Bacò? Sarà un romanzo breve per una prossima puntata.
Chiudiamo con una testimonianza letteraria ché la letteratura è spesso fonte storica. Rudyard Kipling, trovandosi nel 1917 in questi paraggi, così scrisse: “… the fat, flat plains crowded with crops – wheat and barley patches between trim vineyards, every vine with her best foot forwards and arms spread welcome spring…”. Traduco:: frumento e orzo tra filari ben potati e le braccia delle viti che si protendono ad accogliere la primavera.
È una delle ultime testimonianze di un paesaggio destinato a scomparire.