Argentina, un tango sul baratro
In Argentina si vota il 22 ottobre per scegliere il presidente e rinnovare gran parte del Parlamento ma, con un’inflazione arrivata al 102,5 per cento a febbraio, «bisogna arrivarci vivi». Così dice a Panorama Héctor, che ha un piccolo negozio di alimentari a Rosario, la terza città argentina già ribattezzata da alcuni media la «nuova Medellín» per la violenza senza freni dei narcos che ricorda quella del feudo di Pablo Escobar, a inizio anni Novanta. Héctor è stato rapinato 15 volte negli ultimi 24 mesi e ha deciso di chiudere i battenti. La notizia dell’inflazione sopra il 100 per cento (non accadeva dal 1991) è di per sé pessima, visto che l’aumento dei prezzi è la peggiore tassa per chi percepisce salari da lavoratore dipendente. Ma anche per chi prende il sussidio di Stato, sempre più miserabile, che è il modus operandi introdotto dal peronismo e perfezionato dal kirchnerismo per vincere le elezioni.
Ma il tema di una simile inflazione è tanto più grave perché arriva in un contesto sociale molto più disastrato rispetto a quello del 2001, quando il Paese sudamericano dichiarò default. Una trentina di morti per strada, conti correnti bloccati per settimane e il «peso argentino» svalutato dall’oggi al domani di circa il 70 per cento, con i risparmi della classe media andati in fumo visto che da un decennio la moneta nazionale era fissata al cambio di uno a uno con il dollaro. Rispetto al 1991 e al 2001, dicevamo, il contesto sociale è più tragico oggi, con metà della popolazione che sopravvive in povertà, il 10 per cento in miseria e con due terzi dei bambini malnutriti, secondo gli ultimi dati Unicef. Ma soprattutto a causa di una tossicodipendenza in crescita esplosiva, specialmente tra i giovani, con droghe sempre più letali e una violenza narcos scioccante. Una situazione insostenibile, come sottolineato a metà marzo la Commissione episcopale argentina in un comunicato dal titolo inequivocabile: Le ferite del narcotraffico. In cui, oltre ad appellarsi a papa Francesco perché faccia sentire la sua voce, ha denunciato che il disastro attuale «è stato raggiunto con complicità e corruzione di alcuni leader politici» e «la popolazione sospetta che spesso membri delle forze dell’ordine, funzionari della giustizia e politici collaborino con le mafie».
Un riferimento, a detta di molti, all’ex presidente Cristina Kirchner (oggi vicepresidente), arricchitasi in modo inspiegabile e recentemente condannata in primo grado a sei anni per una «corruzione di stato senza precedenti». Ma per l’economia in ginocchio non è stato questo l’unico danno del «kirchnerismo», che ha deciso di ispirarsi alle politiche dell’ex presidente del Venezuela, Hugo Chávez, i cui video su YouTube mentre dà gli ordini di esproprio sono diventati un «cult». L’ultima società in cui lo Stato è intervenuto, il 20 marzo scorso, è stata Edesur - di cui Enel Argentina detiene il 43 per cento delle azioni - che distribuisce energia elettrica a Buenos Aires. Il motivo è ufficialmente quello dei black-out, l’ultimo avvenuto in concomitanza con un semi-comico thread su Twitter del presidente argentino Alberto Fernández, in cui si auto elogiava per i successi economici del suo governo nel settore energetico. In realtà ciò che si sta implementando qui è lo stesso modello distruttivo di Chávez in Venezuela: prezzi controllati con abbattimento dei ricavi privati e conseguente impossibilità per le aziende di fare investimenti e, ovviamente, peggioramento dei servizi.
Da qui la conclusione (errata in quanto aristotelicamente fallaci le premesse) che poi è il mantra del kirchnerismo e di tutti i governi della sinistra latinoamericana: lo Stato interviene ed espropria perché fa meglio del privato. Nell’aprile 2012 l’allora presidente Cristina Kirchner aveva fatto lo stesso intervenendo sulla compagnia petrolifera, controllata dalla società spagnola Repsol, dando in quel caso un ultimatum di 30 giorni. Stesso iter nel 2008, con la nazionalizzazione di Aerolineas Argentina, di proprietà degli spagnoli del gruppo Marsans, con la Transportadora Gas del Norte, con Aguas Argentinas sottratta al gruppo Macri e con i treni di Buenos Aires. Dopo Edesur, adesso Fernández vuole che tutti i corridoi stradali e l’acqua del fiume Paraná tornino nelle mani dello Stato, dopo il tentativo, fallito per l’enorme mobilitazione sociale, di espropriare la fabbrica di cereali Vicentin. Il risultato, come in Venezuela, è che le grandi aziende occidentali se ne stanno andando da Buenos Aires, lasciando il terreno libero per le speculazioni economiche più gradite dal kirchnerismo, ovvero quelle dei cinesi. Nei giorni scorsi ha chiuso la multinazionale lattiero-casearia francese Lactalis, dopo avere venduto il suo stabilimento di Santa Fe.
«L’uscita non è una questione legata solo alla questione economica nazionale, ma ha a che fare con una cattiva applicazione del business in Argentina» hanno spiegato i dirigenti transalpini al quotidiano La Nación. E come il più grande produttore di prodotti lattiero-caseari al mondo se ne sono andati negli ultimi mesi anche Falabella, il principale grande magazzino sudamericano, le compagnie aeree Latam Argentina e Norwegian, oltre a decine di altri marchi tra cui le farmaceutiche Hepatalgina, Pierre Fabre, Gerresheimer ed Eli Lilly, e i produttori di componenti per auto Axalta e PPG. I motivi, analoghi a quelli che hanno fatto lasciare Caracas a migliaia di imprese: continui cambiamenti nelle regole del gioco, zero sicurezza giuridica, inflazione altissima, restrizioni sulle importazioni e impossibilità di trasferire valuta all’estero.
Se questi sono i risultati economici e sociali dell’ultimo quadriennio kirchnerista, è normale che, secondo i sondaggi, i candidati ad avere più chance di insediarsi alla Casa Rosada dal prossimo 10 di dicembre siano due esponenti della destra. L’economista che si ispira alla scuola austriaca, il vulcanico Javier Milei, del partito La Libertad Avanza; e l’ex ministra degli Interni di Mauricio Macri, Patricia Bullrich, a patto che riesca a vincere le primarie della coalizione di centrodestra, Juntos Por el Cambio. In virtù della sua immunità parlamentare, la Kirchner potrà candidarsi alle presidenziali nonostante la condanna. Sempre se la sua coalizione, i peronisti di Frente de Todos, la sceglierà come candidata. La fronda cresce, anche se i kirchneristi fanno finta di nulla: «La mafia giudiziaria vuole metterla fuori legge, il popolo argentino non lo permetterà» è il loro slogan più gettonato.