«Il fascismo fu degenerazione della politica». L’orazione ufficiale del professor Castoldi per il 25 Aprile a Pavia
Ecco l’orazione integrale del 25 Aprile a Pavia, festa di liberazione dal nazifascismo.
Anche quest’anno Pavia nell’anniversario della Liberazione ha ricordato l’assassinio per mano fascista impunita del giovane studente di medicina Ferruccio Ghinaglia avvenuto il 21 aprile 1921. È una scelta che condivido nella sua sostanza, perché riconosce la stretta contiguità tra il primo antifascismo e la Resistenza e vuole ricordare coloro che stavano lavorando e lottando, dopo la Grande guerra, per costruire un’Italia non diversa, ma totalmente opposta, a quella che poi il fascismo ha realizzato.
Circa un mese prima dell’agguato mortale a Ghinaglia, il 13 marzo si era tenuto il primo, credo, Congresso provinciale della Gioventù comunista pavese. Ferruccio aveva scritto la relazione morale, Raffaello Castoldi, di alcuni anni più giovane, che studiava da ragioniere, quella finanziaria, che ancora si leggono sul periodico «Falce e martello» del 19 marzo. Raffaello era il fratello minore di mio nonno Aurelio, figli di Gaetano, che già fu segretario della Consociazione operaia pavese nel 1880. Ancora nell’agosto 1921 fu Raffaello a prodigarsi con Franco Passalacqua e altri per onorare degnamente la memoria di Ferruccio, raccogliendo denaro con una sottoscrizione.
Qualche mese dopo Raffaello scomparve, senza lasciare «tracce», come ricordò Clemente Ferrario ricostruendo Le origini del Partito Comunista nel Pavese.
Facciamo fatica noi, cresciuti in un Paese libero e democratico, pur con tutte le contraddizioni, anche profonde, della nostra storia politica, a immaginare cosa possa significare per un ragazzo di diciassette anni, onesto, sognatore, come è giusto che sia un ragazzo di quell’età, avvezzo alle rivendicazioni operaie, già orfano di madre e di padre, e di famiglia economicamente modesta, senza particolari protezioni alle spalle, con i fratelli maggiori che lavoravano per consentirgli gli studi, vedere assassinato l’amico più caro, e poi sentirsi nello spazio di pochi mesi “braccato”, perseguitato, e assistere all’impunità dei suoi persecutori, che con il proprio sconcerto da bande di delinquenti si stavano preparando a diventare lo Stato, le istituzioni, il governo del Paese, coloro, che ribaltando ogni legittima gerarchia tra diritto e sopruso, avrebbero istituito un regime illegale, illiberale, fondato sulla corruzione e sulla violenza.
Raffaello non poté fare altro che lasciare al più presto Pavia e cercare di costruirsi faticosamente un’esistenza dignitosa. Lo seguì presto anche mio nonno, Aurelio, che a sua volta, dopo essere stato eletto, tra l’entusiasmo dei suoi più di tremila elettori, il 31 ottobre 1920 in Consiglio comunale tra i socialisti col sindaco Alcide Malagugini, fu poi indotto forzatamente alle dimissioni il 29 ottobre 1922 dai fascisti, ormai giunti al governo del Paese. Anche lui subì a più riprese intimidazioni e violenze e, come Raffaello, si trasferì presto a Milano, dove continuò clandestinamente l’attività di propaganda antifascista.
È una storia che racconto in pubblico per la prima volta, più di cent’anni dopo i fatti, tornando in quella Pavia, dalla quale loro furono costretti a fuggire, non senza emozione, ma con una perplessità, mista a sdegno, nei confronti di coloro, che, italiani, non riescono ancora oggi a dirsi orgogliosamente antifascisti.
Vorrei capire più a fondo le loro ragioni e voglio farmi capire su cosa significa per me oggi essere antifascista. Il fascismo non è il male, non è la destra politica, ma è un fenomeno storico e in quanto tale va conosciuto, va capito, va studiato. La storia, la scienza storica, deve essere il fondamento di ogni nostra scelta politica. E la storia non è una favola più o meno edificante o moraleggiante, che racconta la lotta tra bene e male, celebrando ovviamente la vittoria del bene, nel quale tutti ci riconosciamo, senza assumerci alcuna responsabilità delle nostre scelte come singoli e come collettività; e tanto meno è la contrapposizione di schemi interpretativi ridotti a slogan, a formule. La storia è ricerca costante, che indaga, scopre, chiarisce, ridefinisce.
Quando io ero studente, negli anni Settanta, si abusò a lungo del termine «fascista», che era diventato sinonimo improprio di reazionario, di autoritario, o addirittura di uomo di destra, di conservatore. E fu un errore. «Fascisti» erano stati definiti gli americani, «fascisti», talvolta anche “nazisti”, erano detti da alcuni i governi a guida democristiana. Metteva in guardia contro tutto questo il comunista Giorgio Amendola nel 1976 nella sua nota Intervista sull’antifascismo: «Non approvo», diceva, «certe equiparazioni generiche e superficiali. Per esempio quando c’era il governo Scelba-Saragat, taluni dicevano “SS”. Ma tra un governo che io ho combattuto con asprezza, come uno dei momenti involutivi dello sviluppo democratico del nostro paese, e le SS c’è una differenza. Bisogna abituare le giovani generazioni all’arte della distinzione». E aveva ragione. La storia è anche «arte della distinzione».
Il fascismo è stato un fenomeno complesso, che si è evoluto nel tempo, incorporando in sé molte ambiguità: basti pensare ai suoi rapporti con la Chiesa e con la monarchia. Abbiamo avuto almeno tre fascismi, quello apparentemente rivoluzionario delle origini sindacalizzato, anticlericale, quello istituzionale degli anni Trenta integralista, antisociale, monarchico, addirittura imperiale, fortemente reazionario e quello della repubblica sociale, repubblicano, anti-monarchico, filo-nazista e pertanto rivoluzionario e reazionario al tempo stesso. Ma questa estrema duttilità del fascismo è stata l’evidente conseguenza di un’idea politica di partenza, che non fu altro che acquisizione e mantenimento del potere da parte di un solo gruppo dirigente, nell’assenza effettiva di quella prospettiva ideale che aveva invece caratterizzato le pur diverse anime del Risorgimento, oltre che di un’idea innovativa di società. Mussolini lo dichiarò anche apertamente rivendicando la priorità dell’azione sulla parola e sul pensiero e il suo movimento capace di inglobare in sé e superare visioni del mondo contrastanti, di permettere ai fascisti il lusso, e sono sue parole del marzo 1921, di «essere aristocratici e democratici; conservatori e progressisti; reazionari e rivoluzionari; legalitari e illegalitari, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente».
Lungo questa sua metamorfica storia il fascismo mantenne, tuttavia, inalterati alcuni punti fermi, quali l’autoritarismo, rappresentato dal culto della persona del Duce, la corruzione, inevitabile in assenza di un controllo democratico dello Stato, la repressione dei conflitti sociali, la lotta contro differenze, contaminazioni, eterogeneità, minoranze culturali e linguistiche, tutto ciò che era diverso dal “paradigma” di chi si trovava al potere, e infine il culto della violenza, della sopraffazione dei più deboli, degli emarginati, e della guerra come unica forma di soluzione dei conflitti internazionali e unica asse portante della storia.
Ebbene dopo una battaglia durata vent’anni, prima politica e di pensiero, necessariamente condotta in esilio o in clandestinità, e, solo nell’ultima fase, anche armata e militare, l’Italia unita nata dal Risorgimento, non questi o quelli, ha sconfitto chi l’aveva tradita. Il 25 aprile ha questo significato: aver superato gli anni più oscuri della nostra storia di popolo, dal Settecento a oggi, e affermato la cultura del rispetto, della tolleranza, della libertà, sancita poi dalla Costituzione del 1948, che il fascismo aveva negato e che ci consente oggi di convivere in una società multiculturale, sempre più caratterizzata dall’integrazione in un mondo sempre più globale, nel corretto confronto tra le nostre diverse culture politiche, che se vogliamo ancora chiamare destra e sinistra, e sono d’accordo, nulla hanno a che vedere con quella che fu la degenerazione fascista. Ed è per questo che il 25 aprile è Festa nazionale. È la data che sancisce la continuità nella discontinuità tra la monarchia liberale, nata dal Risorgimento, e la repubblica democratica nata dalla Resistenza.
In entrambi i casi si è trattato di un difficile compromesso tra culture politiche diverse e spesso contrastanti e in conflitto, ma nel segno, che piaccia o meno, di un’unità nazionale. Goffredo Mameli, morto nella difesa della straordinaria Repubblica romana del 1849, avrebbe certamente mal digerito la monarchia sabauda, e con lui molti uomini e donne protagonisti del Risorgimento, ma l’Italia è stata fatta. E così socialisti e comunisti si sono seduti sui banchi della Costituente insieme ai liberali e ai democratici cristiani.
Il 2 giugno 1946, col referendum tra monarchia e repubblica, l’Italia era effettivamente divisa tra i legittimi sostenitori di una forma di governo e dell’altra. Ha vinto la Repubblica, ma gli sconfitti da una consultazione democratica meritarono tutto il rispetto loro dovuto. Era già una nuova storia. Era l’Italia libera, che si organizzava per darsi nuovi ordinamenti. Ed è giusto che in quella data si festeggi la Repubblica, ma sarebbe sbagliato festeggiarvi la nazione.
Solo il 25 aprile conserva quel significato unitario, è la data che rappresenta l’Italia libera in un’Europa libera, finalmente in grado di darsi istituzioni democratiche, in continuità, pur nelle evidenti differenze, con l’Italia liberale nata dal Risorgimento e tradita dal fascismo. Il 25 aprile 1945 segnò una rivoluzione culturale di portata europea, che coincideva con la sconfitta dei regimi totalitari fascista e nazista, responsabili della II guerra mondiale, e che fondava l’Europa su nuovi valori di convivenza tra i popoli, che sono stati i valori della Resistenza: tolleranza, democrazia, diritti civili, pace sociale e militare.
Questa è la storia, la macrostoria, che fissa quei punti fermi entro i quali tutti non possiamo fare altro che riconoscerci. Da qui, dal 25 aprile 1945, si è dovuti ripartire, si è dovuto ricostruire, con la cultura della libertà e del reciproco rispetto. Ed è per questo che non possiamo fare altro che dirci tutti antifascisti.
Anche i termini “afascismo” e “afascista”, nati comprensibilmente in rapporto all’abuso che della parola “fascismo” fu fatto negli anni Settanta e come reazione a certe rigidità e a certi eccessi di allora, oggi mi appaiono poco adeguati sia per interpretare la cultura degli anni Venti, Trenta, e Quaranta, sia per farne uso nel presente. Oggi, come allora, o si è antifascisti, se ci si riconosce nei principi fondamentali della Carta costituzionale, o si è fascisti e in quanto tali del fascismo si condividono logiche, linguaggio e comportamenti. Oggi non c’è più nulla da pacificare e da ricomporre rispetto al 1945.
Abbiamo scritto la Costituzione, tutti insieme, con le nostre diverse storie politiche, lasciandoci alle spalle le aberrazioni totalitarie del fascismo. Gli studi più recenti dimostrano quanto la Resistenza, in continuità con l’antifascismo degli anni Venti e Trenta, fu una rivoluzione culturale e non soltanto uno scontro armato tra fazioni opposte in una sorta di guerra civile, che legittimerebbe in qualche modo le ragioni di entrambe le parti, né fu opera di un solo schieramento politico.
Aveva ragione Piero Calamandrei quando sosteneva che sarebbe un grave errore «cercare di annettere la Resistenza a un partito o a una chiesa, farne un’espressione, per quanto alta e purissima, di un’ideologia politica o confessionale», perché la Resistenza fu «qualcosa di più profondo, di più universale, di più penetrante nei cuori: come una sintesi, come una premessa, come una volontà di comprensione umana». Ovviamente non dobbiamo e non possiamo dimenticare gli uomini e le donne che questa storia hanno determinato e subìto e soprattutto tutti i protagonisti della Resistenza, dai monarchici agli anarchici, dagli atei ai cattolici, dai comunisti ai liberali. Non solo per celebrarne e onorarne la memoria, ma soprattutto per capire ancora meglio la storia, che è infatti determinata dagli uomini e dalle loro storie private, nelle quali le contraddizioni e le difficoltà dei tempi si riconoscono meglio, come ho provato a dimostrare col mio ricordo iniziale.
Quando ho letto, nei verbali manoscritti e inediti e conservati qui all’Archivio civico dei Consigli comunali del 1920 e 1921, delle battaglie di mio nonno Aurelio per calmierare il prezzo del latte e del pane, onde non far pagare al proletariato il prezzo della guerra, ho capito molto dell’ascesa del fascismo e del consenso che trovò anche tra i piccoli commercianti. Perché se è vero che il fascismo andò al potere con un colpo di Stato, con la complice responsabilità dei vertici militari e della monarchia, è altrettanto vero che il fascismo ebbe in Italia un vasto consenso popolare. Gli antifascisti erano tanti, spesso in affanno e disorientati, ma forse non maggioranza nel Paese, che ben presto si adeguò alle logiche militaresche e autocratiche imposte dal Duce. Non c’è dittatura che si regga senza un adeguato consenso popolare.
Molti erano fascisti, perché il fascismo sembrava difendere i loro particolari interessi, molti perché il trasformismo politico fascista consentiva loro di salvaguardarli o almeno di non vederli turbati, molti soltanto perché sedotti da una pur abile propaganda di regime fondata sulla retorica delle apparenze, molti perché programmaticamente si sta sempre col potere. E così negli anni Trenta l’Italia sembrava addormentata, al punto che non ci si ribellò nemmeno alle leggi razziali del 1938, accolte dal popolo italiano come qualcosa di possibile, di vagamente legittimo, nonostante l’indignazione di gran parte del mondo.
Stili di vita, modalità di pensiero, che solo vent’anni prima sarebbero stati inaccettabili, venivano allora percepiti dai più come legittimi. È questo che più di ogni altra cosa mi spaventa, pensando alla realtà presente: l’assuefazione ai diritti negati e alla sopraffazione, nell’assenza di una spinta ideale a costruire un mondo nuovo, pensando che le battaglie di allora, che ci consentono oggi di vivere in un mondo civile, non ci appartengano più, non siano più le nostre. E invece lo sono per tutti coloro che si riconoscono nella Costituzione nata dalla Resistenza. Credo che questo sia il significato del 25 aprile come festa nazionale, ed è per tale motivo che ho accolto di buon grado l’invito a essere qui da parte del Comune di Pavia, che ringrazio, di quella Pavia dalla quale mio nonno e suo fratello furono costretti a fuggire all’inizio del Ventennio più oscuro della nostra storia nazionale.
Saldi su queste fondamenta di civiltà e di democrazia e uniti in questo giorno, dobbiamo essere consapevoli che il popolo italiano, primo in Europa, ha legittimato la deriva totalitaria del fascismo, e anche per questo essere capaci, tutti, di saperci antifascisti responsabili, pronti a lottare con le parole e col pensiero per la conquista di nuovi diritti civili e sociali, volti a rendere migliore la nostra convivenza e l’equilibrio tra noi e l’ambiente che ci circonda. Grazie ancora e buon 25 aprile a tutti.
*Massimo Castoldi è professore di Filologia all’università di Pavia, oratore ufficiale della Festa della Liberazione 2023 a Pavia indicato da Anpi e Istituto per la Storia della Resistenza