Il maresciallo Cappadona condannato a risarcire l’Arma. Il danno d’immagine costa 80 mila euro

La grave “ferita” provocata all’onore e al prestigio dell’Arma e il clamore provocato dalla diffusione di quella notizia costano 80 mila euro a Franco Cappadona, 65 anni, per oltre 25 anni alla guida della sezione di polizia giudiziaria della procura di Padova e dal marzo 2021 detenuto in una cella del carcere Due Palazzi. Lo ha sancito la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, con una sentenza pubblicata ieri.

Cappadona è stato al centro di un processo di grande risonanza mediatica: il luogotenente dei carabinieri, ora in quiescenza, era accusato di avere rivelato informazioni d’ufficio che dovevano rimanere segrete, a soggetti coinvolti in indagini penali in corso allo scopo di aiutarli ad eludere le investigazioni.

In particolare, nel corso di conversazioni telefoniche (oggetto di intercettazione), aveva rivelato che erano in atto investigazioni di polizia giudiziaria su Giancarlo Galan, ex presidente della Regione, come effettivamente stava accadendo, e analogo comportamento aveva tenuto per favorire o comunque aiutare altri soggetti ad eludere le indagini.

Per questo il militare, delegato alla guida della sezione di polizia giudiziaria della procura, era stato condannato alla pena di 2 anni e 5 mesi di reclusione per i reati di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio e per favoreggiamento personale, aggravato dall’aver commesso il fatto con abuso dei doveri inerenti alla funzione di pubblico ufficiale.

Condanna, questa confermata in primo grado della Corte di Appello di Venezia e divenuta irrevocabile con la pronuncia di rigetto, nel marzo 2021, del ricorso per Cassazione presentato dallo stesso Cappadona.

A sentenza confermata, la procura erariale aveva chiesto all’ex luogotenente una somma pari a 100 mila euro a titolo di danno all’immagine per l’Arma dei carabinieri e per il Ministero della Difesa.

«In particolare, dalla lettura della rassegna stampa che ha ripreso la vicenda», si legge nella sentenza della Corte dei Conti, «emerge chiaramente come l’appartenenza all’Arma dei carabinieri e il ruolo rivestito, all’epoca dei fatti, all’interno della polizia giudiziaria dal luogotenente Cappadona siano stati determinanti per la consumazione delle gravissime e reiterate condotte a lui addebitate (e descritte con dovizia di particolari), gettando, di conseguenza, grave discredito sull’immagine e sull’operato dell’Arma, deputata a prevenire e reprimere i crimini e certamente non a esserne indirettamente coinvolta».

Cappadona, di questo, era assolutamente consapevole, si legge nella sentenza di condanna: «Poteva attendersi che, qualora i fatti fossero venuti alla luce, il clamor derivante dalla notizia dell’illecito penale avrebbe coinvolto, per le modalità con cui era stato perpetrato, l’amministrazione di appartenenza, procurando un danno all’immagine della stessa come conseguenza naturale della propria condotta illecita».

Da qui la condanna, visti «l’obiettiva gravità del reato accertato, la delicatezza della funzione svolta dal convenuto e la sua valenza all’interno della società, la reiterazione del comportamento illecito, le comprovate ripercussioni negative sull’immagine dell’amministrazione di appartenenza e la grande risonanza mediatica della vicenda, per effetto della ripetuta diffusione sulla stampa, anche in ragione dei procedimenti penali».

Il danno è stato ridotto a 80 mila euro per la «presunta ridotta capacità reddituale del convenuto in relazione al grado posseduto». —