Leggere la traccia sull’elogio dell’attesa al tempo di Whatsapp mi ha fatto fare un balzo
Elogio dell’attesa al tempo di Whatsapp. Mi ha colpita questa traccia che stamani il Ministero ha tirato fuori per la maturità. Le tracce precedenti mi sono sembrate complicate o comunque non hanno suscitato in me nessun desiderio di scriverne. Ma quando sono arrivata a leggere l’ultima, tratta dall’articolo di Marco Belpoliti, ho fatto un balzo.
È un po’ di tempo che ragiono sull’attesa. Pochi giorni fa consideravo che ci sono vari tipi di attese; qualcuna più emotiva e intensa, più ricca e creativa, come attendere da una persona che amiamo la risposta a un nostro messaggio di whatsapp o a una mail. Altre attese sono invece più fastidiose come il call center che ti costringe a stare al telefono o quella dal dentista, in banca o in altra situazione, compresa quella in macchina nel traffico. Dunque i tipi di attesa sono molto diversi e li ho divisi sommariamente per tre:
1. Attendere che la persona che ami ti risponda su whatsapp o con la mail apre, per esempio, uno spazio di riflessione e immaginazione, a mio parere ricco e creativo, anche se spesso doloroso: non avrà risposto perché non mi vuole bene è la reazione più banale, ma anche essa apre a una catena di pensieri che può portare ad analizzare se stessi come non abbiamo mai tempo (!) di fare. Oppure possiamo domandarci: Ho sbagliato qualcosa? O chiederci perché l’attesa è tanto dolorosa e dunque possiamo perfino arrivare a dirci che forse non è giusto dipendere così tanto da questa persona. Insomma, questo tipo di attesa, anche se nervosa e comunque inquietante, perché ci fa sentire trascurati e quindi costretti ad interrogarci (sempre che siamo abbastanza intelligenti da non considerare il silenzio dell’altro come una colpa), è a mio parere tra le più interessanti e tra le più foriere di ricchezza e avventura interiore.
E questo è possibile solo oggi, perché il meccanismo di impazienza scatta immediatamente dopo aver mandato il messaggio o la mail. Un tempo c’era un intervallo lungo e comunque i primi giorni nessuna inquietudine davanti all’assenza di risposta. Questo dolore della mancata risposta o del ritardo della risposta può per esempio portare anche a capire che, nel momento in cui mandiamo un messaggio o una mail, dobbiamo essere pronti a non ricevere risposta, a essere delusi o frustrati o in ansia.
Se non siamo in grado di sopportare questi sentimenti scatenati dall’attesa, allora dobbiamo ridurre al minimo le occasione che ha l’altro di farci stare male. Ma questo discorso è valido solo se stiamo aspettando qualcosa dalla persona di cui siamo innamorati. Se invece si tratta solo di un’amica o un amico sono certa che siamo pronti a perdonarlo per il ritardo o la distrazione. Come scrive Wislawa Szymborska nella bellissima poesia Devo molto a quelli che NON amo:
(quelli che non amo) Non li aspetto
dalla porta alla finestra.
Paziente
quasi come un orologio solare,
capisco
ciò che l’amore non capisce,
perdono
ciò che l’amore non perdonerebbe mai.
Da un incontro a una lettera
passa non un’eternità,
ma solo qualche giorno o settimana.
Se invece amiamo, quell’attesa diventa febbrile, dolorosa, colma di immaginazione (tradimenti, incidenti, disguidi, trascuratezza, indifferenza…).
2. C’è poi l’attesa al telefono, un call center che ci rimanda di minuto in minuto proponendoci sempre la stessa fastidiosissima cantilena e qui l’impazienza scatta in effetti rabbiosamente. Ma l’infinita capacità creativa degli esseri umani non va mai sottovalutata e ho visto persone inserire il vivavoce e continuare tranquillamente a fare quello che stavano facendo mentre nell’ufficio e nella casa si diffondeva di sottofondo l’inossidabile voce registrata. È vero quello che dice Belpoliti, che oggi nessuno riesce a sopportare la noia, ma forse proprio la paura della noia ci fa venire in mente soluzioni alternative; questa ricerca di una soluzione non ci fa cadere in stati catatonici e rassegnati, anticamere di molti malesseri.
3. L’attesa in un’anticamera o nel traffico oggi ci autorizza a compiere gesti, alcuni dei quali considerati dalla mia generazione nocivi, come scrollare su Facebook, scorrere Instagram, o vedersi un video, chiamare l’amica che non riusciamo mai a contattare per via della vita frenetica, gesti che non trovo affatto sconvenienti. In qualche modo riempiamo l’attesa con azioni che desideriamo. Quindi quello non diventa più un tempo “vuoto”, non essendo in alcun modo un tempo “libero”, ma un tempo in cui possiamo agire. Quindi non credo che non sappiamo più attendere, credo che abbiamo oggi la possibilità di riflettere diversamente sull’attesa. In modo più fantasioso e creativo.
Detto questo, ho scritto un testo in cui la vista di un uomo che attende per strada senza motivo stravolge la via di una donna molto infelice. L’attesa dell’uomo, che lei vede tutte le mattine andando in ufficio, entra nella vita di lei e l’avvolge come un’ossessione fino a quando la donna non decide di fermarsi accanto a lui e farsi raccontare le ragioni di quella assurda attesa lungo una strada trafficata, ogni giorno, in ogni ora, in ogni stagione. In fondo, è un piccolo elogio alla paziente attesa del nulla. Esercizio che forse, invecchiando, è bene imparare.
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