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Июль
2023

Strage di Rivarolo, Tarabella non va in aula. La pistola fu segnalata ma restò nella casa

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Rivarolo Canavese

«Sapevamo della pistola, ma ci disse che l’avrebbe conservata in cassaforte. Per noi andava bene, anche per non rovinare il rapporto instaurato con Tarabella». Questo è uno dei passaggi chiave della testimonianza dell’assistente sociale, Rosanna Vella, che dal 2008 al 2017 aveva seguito la famiglia di Renzo Tarabella, 85 anni, autore della strage avvenuta il 10 aprile del 2021 a Rivarolo Canavese, quando uccise a colpi di pistola la moglie Maria Grazia Valovatto, 79 anni, il figlio disabile Wilson, 51 anni, e i proprietari di casa ovvero i coniugi Osvaldo Dighera, 74 anni, e Liliana Heidempergher, 70 anni. Ieri, martedì 18, in aula sarebbe dovuto essere presente per testimoniare lo stesso Tarabella, ma il difensore, l’avvocato Flavia Pivano, ha fatto sapere che il medico che lo ha in cura ha sconsigliato di farlo arrivare il tribunale a Ivrea per il caldo eccessivo e i suoi problemi di salute legati alla pressione bassa.

I testimoni esaminati in aula hanno riferito tutti sulla situazione che c’era nella famiglia Tarabella e sul carattere, definito pessimo, dell’imputato. Tra questi c’era Romina Rende, medico di base che assisteva sia i Tarabella che i Dighera: «Era un paziente difficile, burbero e maleducato, mi parlava spesso della situazione in famiglia, che era insostenibile. Tuttavia, qualsiasi tentativo di suggerirgli di trovare un aiuto, un supporto, lui lo respingeva». I vicini di casa, riferendosi a Tarabella, lo descrivono come «un attaccabrighe, scontroso».

L’udienza si è poi concentrata sulla questione della pistola, una Beretta semi-automatica, con la quale il rivarolese uccise le sue quattro vittime. Danila Andreucci tra il 2012 e il 2014 seguiva come operatrice socio-sanitaria Wilson Tarabella: «Era autistico, io andavo a casa dei Tarabella almeno due volte la settimana e lo portavo a fare un giro. Era uno dei pochi momenti in cui usciva e si staccava dall’atteggiamento morboso e protettivo dei genitori. Wilson era contento anche che a portarlo fuori fosse Osvaldo Dighera, al museo o al supermercato, era indifferente». Dighera, infatti, qualche volta organizzava delle uscite con il figlio di Tarabella, fino a quando non nacque la nipotina dei Dighera. Fu proprio questo uno dei fattori che scatenò la gelosia del padre e, come sostiene l’accusa, che lo portò a commettere gli omicidi. «Un giorno Renzo - prosegue la Andreucci - mi mostrò la pistola carica dicendomi che con quella non aveva paura di nessuno. Io ne rimasi sconvolta e scrissi una relazione alla mia referente e nel parlammo con i servizi sociali del Ciss38. Loro contattarono Tarabella, che a sua volta li rassicurò promettendo che avrebbe custodito la pistola in cassaforte. Mi accusò, però, di averlo tradito e dopo poco tempo lasciai l’incarico. In casa loro si respirava davvero un brutto clima. Erano in preda alla depressione, piangevano spesso lamentando che erano anziani e malati con un figlio disabile e che nessuno li aiutava. Un giorno Tarabella mi confidò di volerla fare finita, prendere figlio e moglie e buttarsi con l’auto nell’Orco».

Della segnalazione fatta dalla Andreucci parla anche l’assistente sociale, Rossana Vella, che lavorò al Ciss dal 2008 al 2017, seguendo anche la famiglia dell’imputato: «Era una famiglia difficile. C’era un clima di depressione, ma non accettavano facilmente aiuto, anche se io ero riuscita ad instaurare un buon rapporto con loro. Ricevuta la segnalazione di Andreucci, ci fu una una riunione con lei e la sua referente e ricordo di aver parlato della situazione e della pistola ai miei superiori, ma non ricordo il seguito. Abbiamo poi ricevuto una telefonata da Renzo Tarabella che ci assicurava che avrebbe tenuto il caricatore separato dalla pistola e quest’ultima l’avrebbe messa in cassaforte, poi ci disse che nel 2018 scadeva il porto d’armi e non lo avrebbe rinnovato. Non sono andata oltre, anche per non rovinare il rapporto instaurato».

La pistola, però, rimase nell’abitazione di corso Italia e faceva paura a Liliana Heidempergher, che si confidava con la donna delle pulizie, anche lei ascoltata in aula: «Liliana aveva paura di quella pistola e di Renzo, diverse volte mi disse di non farlo entrare se c’eravamo sole io e lei a casa». Sul punto della pistola il legale di Francesca Dighera, figlia dei coniugi assassinati, l’avvocato Sergio Bersano, è molto critico: «Sono stupito che la segnalazione fatta dalla oss non sia stata inoltrata dai servizi sociali ai carabinieri. Le risposte dell’assistente sociale mi hanno sconcertato. Senza quella pistola credo sarebbe stato difficile compiere una strage».

Il processo riprenderà il 19 settembre quando potrebbe essere ascoltato in aula l’imputato, in vista della discussione e della sentenza.




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