Valli canavesane, si rinnova il rito di 681 aziende negli alpeggi

foto da Quotidiani locali

Ivrea

Suonano le campane di 26.835 mucche, pecore e capre dei 681 allevamenti presenti nell’Asl/To4, oggi, nelle vallate canavesane. Salgono agli alpeggi, sempre più in alto e in cerca dell’erba più fresca, per rinnovare un rito antico come le stagioni e il rapporto tra l’uomo e le bestie: la transumanza, che ha scavato i sentieri che oggi turisti ed escursionisti percorrono durante il loro tempo libero. Non è un caso, infatti, che a Traversella vicino al suggestivo sentiero delle anime - che si dice appunto che i margari non percorressero perché da quelle parti transitavano le anime dei morti -, ci sia quello della transumanza, oggi percorso dai turisti come il fratello più famoso.

Le mandrie e le greggi di solito pascolano le erbe fiorite a 1.000-1200 metri di quota a fine maggio inizio giugno; per poi salire a 1.500-1800 metri, e per stabilirsi, in questo periodo anche sopra i 2.000. Tutti i pascoli vengono utilizzati secondo tecniche di consumo delle erbe ben precise dove le mucche brucano (e così favoriscono la ricrescita delle erbe con maggiore valore nutritivo) ma nello stesso tempo evacuano, distribuendo, così, il loro concime naturale in ogni angolo di pascolo, in una vera, e antica, forma di economia circolare.

Ora gli allevamenti canavesani stanno risalendo le valli Dora Baltea, Chiusella, Soana e Orco. Dei 681 censiti, 488 si occupano di bovini e 193 di ovocaprini. In tutto i bovini sono 14.497, mentre gli ovini 9.631 e i caprini 2.707.

È un’attività che secondo gli studi di Coldiretti frutta 7 milioni di euro in tutto il Torinese. «L’economia d’alpeggio delle vallate torinesi – ricorda il presidente Bruno Mecca Cici - sconta gli altissimi costi di produzione dovuti a un lavoro difficile in zone assolutamente disagiate dove spesso i formaggi si portano a valle ancora con il mulo o, nei casi migliori, con il fuoristrada; e dove, se una mucca si fa male o l’auto deve andare dal meccanico, è una mezza tragedia. Senza parlare degli attacchi dei lupi che stanno facendo rinunciare molti allevatori a portare in montagna gli ovini e i caprini. Senza l’economia d’alpeggio il territorio montano sarebbe abbandonato e sarebbe improduttivo. E nemmeno esisterebbero i formaggi tipici della provincia di Torino. Difendere i nostri alpeggi e i nostri margari significa difendere il cuore della nostra ricchezza enogastronomica; vuol dire difendere la cura del territorio e sostenere tanti posti di lavoro che in molti casi sono rappresentati da giovani che amano il rapporto con gli animali e una vita che segue i ritmi della natura».

Nelle vallate torinesi negli alpeggi sono impiegate oltre 3.200 persone. Una tradizione che si ripete da 5.000 anni, epoca della prima colonizzazione delle Alpi, e che segue la maturazione delle erbe alpine. La particolarità dell’economia d’alpeggio è poco conosciuta dai consumatori, eppure è alla base delle produzioni dei formaggi tipici della gastronomia piemontese dove la qualità del latte, influenzata direttamente dalle specie vegetali brucate dalle mucche, conferisce caratteristiche uniche ai formaggi.

Le mucche che trascorrono i classici 100 giorni estivi in alpeggio sono oltre 36.300 in tutto il Torinese. Circa la metà sono bovini da carne dove prevale la pregiata razza piemontese. Invece, le bovine da latte in alpeggio, in una stagione, producono oltre 11 milioni di litri di latte che, nei circa 200 caseifici d’alpeggio autorizzati, vengono trasformati in oltre 80mila forme di formaggio stagionato, dove primeggia la profumata toma. A questi vanno aggiunti gli oltre 200mila panetti da mezzo chili di prelibato burro ricco di vitamina A, vitamina E, flavonoidi.

Altra minaccia per l’economia degli alpeggi sono i danni causati dai cinghiali, che spesso rovinano interi pascoli in poche ore. Per questo nelle scorse settimane si sono svolti degli interventi mirati a ridurre la popolazione dei cinghiali in alpeggio.

«Se il paragone è con lo scorso anno - spiega ancora Mecca Cici - questo è un anno fantastico, perché i prati si sono ristabiliti dopo la lunga siccità. La primavera ci aveva preoccupato un pochino, ma le piogge protratte in stagione non hanno creato problemi ma hanno rinverdissero pascoli, e le risorgive delle sorgenti che erano la preoccupazione dei nostri allevatori hanno incominciato di nuovo a sgorgare. Diciamo che i problemi, appunto, sono con gli animali selvatici. Stagione siccitosa cinghiali non operassero. La stagione della montagna è cortissima, parte tardi e finisce inevitabilmente presto. Un piccolo intoppo in quei 100 giorni, purtroppo, compromette la stagione. È una struttura fragile ma che ha un’economia che tutela tutto il territorio. In ogni vallata, ognuno ha le sue forme di formaggio, i suoi prodotti tipici. è una ricchezza anche per i turisti: i primi che aprono i loro sentieri sono proprio i nostri allevatori».