Stefano Saccotelli, originario di San Giorgio: «Approdato al teatro una sera quasi per caso, oggi ho realizzato una parte dei miei sogni»
SAN GIORGIO CANAVESE. Nuovo riconoscimento per l’attore canavesano Stefano Saccotelli: il cortometraggio Tra moglie e marito, scritto e prodotto da Carlotta Contini, per la regia di Beatrice Vargiu, da lui interpretato insieme a Valeria Palmitessa , è appena risultato vincitore, nella categoria Best horror, al Milan Independent Awards Film Festival July 2023.
L’occasione per conoscere più da vicino l’ artista originario di San Giorgio Canavese. La sua è una carriera che dura, in crescendo, da quasi trent’anni.
Oggi un nuovo riconoscimento: ci fa un commento, dunque, a questo Tra moglie e marito che ha visto premiato, ancora una volta, il suo talento?
«Sono ormai vicino, in effetti, ai trent’anni di professionismo, in un mestiere inizialmente condiviso con altre attività e poi abbracciato definitivamente, prendendo la decisione, non facile, di provare a vivere di questo bellissimo e difficile lavoro, lasciando anche un contratto a tempo indeterminato. Il premio di Miglior horror al Miaff July 2023 per Tra moglie e marito è anzitutto il riconoscimento al talento dell’esordiente produttrice milanese Contini e di un’altra giovane professionista, sangiorgese come me, la regista Vargiu che, curiosamente, ho conosciuto a Milano, dove attualmente viviamo entrambi: solo approfondendo la conoscenza, infatti, in vista della mia partecipazione come protagonista al suo pluripremiato corto di debutto Hay Almas, Ci sono anime, abbiamo scoperto di essere compaesani. Quando si dice karma…»
Come è approdato Stefano Saccotelli al cinema e al teatro?
«Per puro caso: trascinato letteralmente sul palco da amici che mi avevano invitato alla prima di un loro spettacolo. Un attore ebbe un problema di salute proprio la sera del debutto ed io, già seduto tra il pubblico, fui raggiunto da un conoscente della compagnia amatoriale: “Devi entrare in scena e dire semplicemente tre battute!”. Nonostante il panico, io che avevo sempre preferito la musica alla recitazione, venni praticamente scaraventato sul palco per coprire la defezione. L’applauso del pubblico mi fece capire che quello era l’unico modo per affrontare la mia timidezza e la mia ansia patologica. Fu così che iniziai a fare teatro, con la benedizione di “nonna” Amelia Bollea, indimenticata e vulcanica vedova del medico-scrittore sangiorgese Giacomo Bardesono, e insieme all’amica Vittoria Minetti, nell’allora compagnia di San Giorgio, oggi Trensema. Quindi furono il coro Le Quattro Stagioni, della mia sorella d’arte Cristiana Arri e, successivamente, le esperienze con la Corale Rivarolese e con il gruppo teatrale Lo Zodiaco di Caluso. A proposito di quest’ultimo, devo molto a Simona Salvetti e Francesca Siragusa: il loro modo di concepire il teatro e la sua funzione sociale sono tuttora parte del mio credo artistico. Da qui la prima scrittura, da professionista, nel 1996, con il Contato del Canavese ne Il trionfo della medicina, dall'originale Knock di Jules Romains, per la regia di Franco G. Ferrero. Fu il momento ideale per i corsi e il perfezionamento alla prestigiosa Sergio Tofano di Torino del grande Mario Brusa, gli stage a New York e a Parigi e il tocco finale del maestro Aldo Zampieri, oggi centenario e talento inossidabile, che mi volle nella sua famosa bottega teatrale. Il resto è storia più recente, con il cinema e l’indimenticabile esperienza con Vittorio De Seta in Lettere dal Sahara e i cammei con Giuliano Montaldo ne I demoni di San Pietroburgo e L’industriale, tanta fiction tv, pubblicità e, appunto, cinema indipendente».
Il suo esprimersi creativamente, nel corso degli anni, si è dilatato anche al giornalismo, alla musica e a molto altro: come è riuscito a conciliare tutti gli impegni, portandoli brillantemente a compimento?
«Facendo i salti mortali, e cercando, in ciascuna delle mie attività, di essere, per quanto possibile, coerente con me stesso e verso chi mi sosteneva, ringraziando per la fiducia e l’affetto. Io amo definirmi “operaio della recitazione”, gli artisti sono altri e da essi c’è, semmai, solo da imparare. E in questo mestiere, fatto di lunghe attese e faticate soddisfazioni, di apprendere non si finisce mai».
Lei è uno dei rari casi di “profeta in patria”: il suo nome è conosciuto e stimato, il talento riconosciuto come dimostrano premi e riconoscimenti. È soddisfatto di quanto ha realizzato finora?
«Assolutamente sì: se mi guardo indietro vedo un ragazzino timido e introverso, che, attraverso la sua passione nascosta forse per troppo tempo, ha successivamente bruciato le tappe, realizzando parte dei suoi sogni: come dimenticare quel 31 agosto del 2006, in cui, in occasione della proiezione di Lettere dal Sahara, alla Mostra di Venezia, e seduto nel palco d’onore, intravidi, proprio dietro a me, le sagome del compianto Mario Monicelli e dell’allora direttore del Tg3, Sandro Curzi, che ci battevano le mani? E quanta emozione quando, nella serata di qualche anno fa al Centro La Serra di Ivrea, per raccogliere fondi per i lavoratori sfrattati dal rogo del comprensorio di Scarmagno, il segretario della Cgil, Maurizio Landini, si alzò dalla prima fila per venirmi a stringere la mano, dopo il mio Tango del Disoccupato, lavoro che ho recentemente portato sul palco del mitico Zelig di Milano. Classe 1963, sono torinese di nascita, proveniente da una famiglia mista, con i nonni pugliesi, canavesano di crescita e ho vissuto anche dodici, indimenticabili anni nella splendida Valle d’Aosta: sono questi i miei luoghi del cuore».
Ha dovuto sacrificare qualcosa o qualcuno lungo il suo percorso professionale?
«Ho la fortuna di avere sempre dalla mia parte la mia splendida famiglia, il mio compagno Francesco e gli amici di sempre: quello dell’attore è un lavoro che non può, purtroppo, prescindere anche da lunghe assenze, e tardivi rientri. Come accadrà tra novembre e gennaio prossimi, quando, per il sesto anno, partirò in tour con il musical A Christmas Carol, della straordinaria compagnia torinese Bit: da Asti a Mantova, passando per la Sicilia, Roma, Torino, dove il 19 e il 20 dicembre, sarò al Teatro Alfieri, quindi a Milano, per un totale di quasi quaranta repliche in giro per l’Italia, e con una tappa a San Marino, a Capodanno».
Ha indicato di tenere molto al film Malanova che ha da poco terminato di interpretare e che sarà presentato al prossimo Torino Lovers Film Festival Lgbtqia+: qualche anticipazione o auspicio?
«Dopo l’accettazione, non ho più nascosto il mio orientamento sessuale e il mio impegno personale per la causa Lgbtqia+, men che meno in questo periodo storico e in un Paese dove si è tornati a voler negare invece di concedere, emarginare piuttosto che accogliere, in controtendenza con il mondo civile. Roberto Cuzzillo, il regista, che ringrazio, mi ha dato la possibilità di raccontare il mio universo in un film che non vedo l’ora che esca e che racconta di una giovane coppia omosessuale, tra silenzi e paure non dissimili da quelle di qualsiasi rapporto a due, che si affida proprio all’esperienza di vita di un anziano zio, Enzo, per trovare le risposte che cerca».
Un sogno nel cassetto?
«Più che altro un desiderio: continuare a lavorare, e con continuità. La precarietà è tipica del mondo dello spettacolo, dove è sempre più importante quello che farai rispetto a ciò che hai già fatto. Ed è questo che mi tiene vivo». FRANCO FARNÈ