Vittoria degli ambientalisti al Parlamento europeo, il 20% delle superfici Ue saranno aree protette entro il 2030
TRIESTE Dopo mesi di accesi dibattiti il Parlamento europeo ha approvato a metà mese una legge chiave per la protezione della natura, che rende il ripristino degli habitat europei un obbligo di legge. La Nature Restauration law è passata per il rotto della cuffia, con 336 voti favorevoli, 300 contrari e 13 astenuti.
Tra i sostenitori della legge le associazioni ambientaliste, a partire dal Wwf, i giovani del Friday for Future, 6000 scienziati europei e oltre un milione di cittadini, firmatari di un appello per il “sì”. Ma anche il lato degli oppositori era piuttosto affollato: esponenti delle destre europee, tra cui anche il Governo italiano che si era espresso negativamente in un voto precedente, del Ppe, e molte associazioni di categoria, a partire da Coldiretti. E non manca chi afferma che, tra un emendamento e l’altro, la legge è stata svuotata di passaggi importanti. In ogni caso il testo ufficiale di questa proposta di regolamento non è ancora stato pubblicato e l’iter legislativo per arrivare alla sua applicazione è appena all’inizio.
«Si tratta sicuramente di una scelta politica molto forte, che insiste sul cammino intrapreso con il Green Deal europeo della Commissione von der Leyen, che punta a uno sviluppo economico attento alla salvaguardia dell’ambiente - è il commento di Guido Befani, docente di Diritto della transizione ecologica all’Università di Trieste -. In particolare, la legge si pone l’obiettivo di consentire entro il 2030 che almeno il 20% delle superfici terrestri e marine dell’Unione vengano preservate come aree naturali protette».
Un aspetto, evidenzia Befani, su cui l’Italia è stata pioniera, con il Fvg in prima fila: «Siamo stati tra i primi in Europa e nel mondo a istituire Parchi nazionali a Aree protette». Basti pensare che la prima area marina protetta italiana, istituita nel 1986, è l’Amp di Miramare.
Quali sono i pilastri di questa legge?
«Sono almeno quattro: il contenimento della Co2, il contrasto al cambiamento climatico, la protezione della biodiversità e la resilienza alimentare. Il primo è un obiettivo piuttosto palese: va preservata la funzione della natura legata alla fotosintesi. Se aumento le superfici arboree e verdi aumenterò la capacità del sistema di assorbire Co2. E così si vuole garantire anche una possibile inversione di rotta sul cambiamento climatico. Il terzo aspetto è legato alla salvaguardia della cosiddetta biodiversità, sia delle colture e quindi dei semi, sia degli animali. Ciò consentirebbe anche la realizzazione dell’obiettivo strategico e politico della sovranità alimentare: consentire al settore primario dell’Ue di essere resiliente significa proteggere il sistema agroalimentare da possibili leve geopolitiche esterne».
Perché opporsi a questa legge allora?
«Si tratta di un’operazione che ha dei costi. Se si vogliono proteggere le colture autoctone dalle monocolture e dall’agricoltura intensiva ciò comporterà degli oneri aggiuntivi per gli imprenditori agricoli, che si troveranno tra l’incudine e il martello: il rischio è quello di perdere competitività rispetto agli agricoltori che stanno al di fuori di questa cornice normativa. Bisognerà dunque stare a vedere come questa proposta verrà atterrata dagli Stati membri in altri provvedimenti (il cosiddetto Piano Nazionale di Ripristino) e come il dibattito politico prenderà a cuore queste legittime obiezioni. La sostenibilità non è solo ambientale, ma anche economica e sociale. Ci dev’essere anche un fondamento di sostenibilità economica in queste azioni, a meno che non si voglia drogare il mercato con forti iniezioni di capitali pubblici. E di sostenibilità sociale, perché la tutela ambientale è sacrosanta, ma se i costi vengono scaricati sui produttori potrebbero poi venire riversati sul costo finale del prodotto, danneggiando il potere d’acquisto delle categorie più fragili».
Ma ci saranno anche dei vantaggi in termini economici...
«Certamente, a partire dai cosiddetti servizi ecosistemici generati dalla natura. La migliore qualità dell’aria, che ci fa ammalare di meno, l’incremento delle superfici arboree, che con le loro chiome riparano dal caldo e con le radici consolidano il terreno e lo proteggono dal dissesto idrogeologico, la regolazione del clima, la tutela della biodiversità animale, a partire da quella degli insetti impollinatori: le api svolgono un servizio pubblico a costo zero, ma bisogna consentire loro di continuare a farlo».
E come rispondere a chi si chiede perché l’Europa debba sobbarcarsi dei costi a fronte di altri Stati che si comportano diversamente?
«Si dice che l’America inventa, la Cina copia e l’Europa regola. E in effetti l’Europa è stata da sempre apripista sul fronte giuridico. Ma i nostri sistemi di regolamentazione poi vengono presi in seria considerazione dai nostri vicini, perché i problemi sono comuni. Perciò certo, fare da apripista ha dei costi e magari si può sbagliare in eccesso, ma bisognerebbe domandarsi anche, all’opposto, quale sia il reale costo occulto dello stare fermi».