Atti Vajont, l’impegno di De Carlo: «La legge non è dalla nostra, ma ce li meritiamo»
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foto da Quotidiani locali
«Abbiamo dimostrato, noi bellunesi, che sappiamo prenderci cura dell’archivio del Vajont, che siamo capaci di migliorare la sua fruibilità, che lo sappiamo custodire. Ci meritiamo che ora i documenti dei processi restino qui, a Belluno».
È tutta una questione di cuore, dice Luca De Carlo, unico parlamentare a rappresentare il Bellunese a Roma, oltre che essere sindaco di Calalzo. Ed è nel suo ufficio di sindaco, mentre sistema montagne di carte, che lo abbiamo contattato per spiegarci come sta agendo, e perché, per far sì che l’archivio del Vajont continui a restare nell’Archivio di Stato di Belluno anche in futuro. «Sappiamo perfettamente che per legge i documenti del Vajont dovrebbero tornare a L’Aquila. La legge lo dice chiaramente: gli atti dei processi devono essere conservati nell’Archivio di Stato della città dove si sono svolti i processi».
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L’Aquila fu scelta come sede del processo di primo grado e poi dell’appello per la cosiddetta “legittima suspicione”, cioè il timore che a Belluno ci potesse essere un condizionamento popolare sui giudici che dovevano decidere. Questioni di ordine pubblico, si disse, costringendo i superstiti a viaggi lunghi e faticosi per arrivare a L’Aquila. Era il 1969 e i trasporti pubblici erano a dir poco precari. I documenti del Vajont sono arrivati a Belluno nel 2010, un anno dopo il terremoto che ha danneggiato gravemente la sede dell’Archivio di Stato de L’Aquila.
Il lavoro di digitalizzazione dei documenti, per inserirli in un portale web, erano cominciati da poco e non potevano certo continuare in mezzo alle macerie del terremoto. Tra l’altro le scosse avevano ucciso una delle due archiviste che si occupavano proprio del trasferimento dei documenti nel digitale. Venne siglata una convenzione tra Belluno e L’Aquila e i 256 faldoni processuali presero la strada dell’Archivio di Stato di Belluno, dove la digitalizzazione è ripresa e 14 faldoni danneggiati da una perdita d’acqua a L’Aquila sono stati restaurati.
«È stato grazie alla volontà dei bellunesi, al sostegno della Fondazione Vajont e di altri istituti che si è arrivati a completare sia la digitalizzazione che il restauro. Abbiamo dimostrato nel corso di questi anni di avere a cuore quei documenti, che rappresentano la nostra storia», ribadisce il senatore De Carlo. Sì, ma ora cosa si può fare? «Non è in punta di diritto ma in punta di cuore che dobbiamo agire. Faccio mie le considerazioni dello storico Maurizio Reberschak. Non abbiamo la forza della legge dalla nostra parte, dobbiamo avere la volontà e la passione per portare a casa il risultato. C’è chi lavorerà sotto traccia, come auspica Reberschak, chi sopra, chi attivando le proprie conoscenze, chi sollecitando e sensibilizzando gli interlocutori, per arrivare a tenere l’archivio del Vajont a Belluno. Da parte mia», aggiunge De Carlo, «ho già contattato gli uffici e la segreteria del ministro della Cultura, da cui dipendono gli Archivi di Stato, per cercare di capire prima di tutto quali possibilità ci sono e poi per esprimere la volontà di tutto il territorio, per far capire che abbiamo dimostrato di saper custodire e valorizzare i documenti, gli atti, e gli oggetti che sono stati mandati a Belluno da L’Aquila».
Infatti non ci sono solo i faldoni di carte, ci sono i tracciati sismografici, i carotaggi delle rocce, le cartografie, i modellini fatti realizzare dal giudice istruttore Mario Fabbri, durante la sua indagine e anch’essi restaurati a Belluno e conservati all’Archivio di Stato di Santa Maria dei Battuti. «Quella inviata al ministero dovrà essere una richiesta univoca del territorio, dal sindaco di Longarone che è anche presidente della Provincia, alla Fondazione Vajont, ai cittadini, ai mass media. E io sono a disposizione», assicura De Carlo. «Occorre creare una massa critica fatta di passione e di cuore per modificare quello che la legge dice che non è un nostro diritto. Lo faremo con tranquillità d’animo ma con determinazione. Per noi Vajont è una vicenda simbolo, è la nostra storia, con la quale tra l’altro non abbiamo fatto i conti fino in fondo, che vorremmo custodire non per gelosia, non per una guerra contro l’Aquila, che non esiste, ma proprio perché vorremmo essere come dei sacerdoti che custodiscono una memoria: è una responsabilità che ci vogliamo prendere», conclude il senatore.