Le buste paga in regione, focus sugli stipendi: a Pordenone sono più pesanti che a Udine
UDINE. Gli stipendi migliori in regione? Li hanno i lavoratori dipendenti del settore privato della provincia di Trieste. Nel 2021 (ultimi dati disponibili) la loro retribuzione media annua è stata pari a 24.747 euro (+13,2 per cento rispetto alla media nazionale) e settimo posto nella classifica italiana.
Seguono i colleghi di Pordenone con 23.451 euro (+7,2%) e 17esimo posto in Italia, di Udine con 22.116 (+1,1%) e 32esimo posto, e, infine, di Gorizia con 20.834 euro (-4,7%) e 39esimo posto.
Come si giustifica l’ottimo risultato registrato dal capoluogo regionale giuliano che si “colloca” al settimo posto tra le 103 province d’Italia monitorate in questo studio? Avendo Trieste un numero molto contenuto di abitanti e dunque di occupati, è evidente che la presenza in città di realtà importanti come Generali, Fincantieri, Illycaffè, contribuiscono a innalzare in maniera significativa la media salariale.
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Sono questi alcuni degli aspetti emersi dall’elaborazione eseguita dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre su dati Inps.
Le differenze geografiche
A livello regionale, sempre nel 2021, il salario medio annuo in Friuli Venezia Giulia era pari a 22.829 euro; la regione più a est del Paese si piazza al quinto posto a livello nazionale dopo la Lombardia (27.285 euro), l’Emilia Romagna (23.798 euro), il Piemonte (23.661 euro) e il Veneto (22.852 euro), ma davanti al Trentino Alto Adige (22.173 euro) e al Lazio (21.942 euro), prima regione del Centro Italia.
Il dato medio nazionale ammontava a 21.868 euro, con le regioni del Sud a fare da fanalino di coda con Calabria (13.851 euro), Sicilia (15.361 euro) e Campania (15.596 euro) agli ultimi tre posti. «In Italia le disuguaglianze salariali a livello geografico sono importanti, ma, grazie a un preponderante ricorso alla contrattazione centralizzata, abbiamo differenziali più contenuti rispetto agli altri Paesi - si legge nella nota della Cgia - . Per contro, la scarsa diffusione in Italia della contrattazione decentrata che, ad esempio, è molto diffusa in Germania, non consente ai salari reali di rimanere agganciati all’andamento dell’inflazione, al costo delle abitazioni e ai livelli di produttività locale, facendoci scontare anche dei gap retributivi medi con gli altri Paesi».
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Contratti nazionali da rinnovare
L’Ufficio studi della Cgia ritiene che per appesantire le buste paga sarebbe necessario rispettare le scadenze entro le quali rinnovare i contratti di lavoro.
Al netto del settore dell’agricoltura, del lavoro domestico e di alcune questioni di natura tecnica, al 1° settembre scorso il 54 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato in Italia aveva il Ccnl scaduto.
Stiamo parlando di quasi 7,5 milioni di dipendenti su un totale che sfiora i 14 milioni. Molte le cause che concorrono a questi ritardi, ma è verosimile pensare che in molti casi ciò sia riconducibile alla difficoltà riscontrata dalle parti sociali a trovare un accordo sugli aumenti economici che vada bene sia al Nord che al Sud.
Insomma, non essendo sviluppata la contrattazione di secondo livello - che per sua natura è in grado di premiare la produttività aziendale/territoriale e definire le contromisure per contrastare l’inflazione che, come sappiamo, ha tassi differenziati tra regioni e regioni e tra aree centrali e aree periferiche - è sempre più difficile raggiungere una intesa sugli aumenti retributivi di settore entro la scadenza prevista per un contratto che vada bene da Udine fino a Ragusa.
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Contratti aziendali
Entro il 15 giugno scorso erano presenti presso il Ministero del Lavoro 10.568 contratti attivi di secondo livello, di cui 9.532 di natura aziendale e 1.036 territoriali.
Lombardia (3.218), Emilia Romagna (1.362) e Veneto (1.081) sono le regioni che presentano il numero più elevato. Il Friuli Venezia Giulia, invece, si trova all’ottavo posto con 335 contratti decentrati, di cui 327 sono aziendali e 8 territoriali.
I dati del Ministero del Lavoro, purtroppo, non ci consentono di misurare il numero di lavoratori coinvolti a livello regionale. Sappiamo, però, che in Italia sono interessati solo 3,3 milioni di dipendenti (il 20 per cento circa del totale nazionale), di cui 2,1 da contratti aziendali e 1,1 da contratti territoriali.