È il giorno di “Calibro 9”: l’omaggio di D’Angelo al grande cinema noir
foto da Quotidiani locali
I critici cinematografici dei Settanta non furono affatto gentili, tutt’altro. Milano calibro 9 di Ferdinando Di Leo è una pellicola noir del 1972 e solamente in seguito divenne un cult. Appena comparve sul grande schermo ricevette parecchi pollici all’ingiù.
Un destino comune a registi e ad attori rivalutati con tutta la calma del mondo (leggi Totò) e senza che gli interessati beneficiassero del successo. Ci interessa questo titolo che ha un legame forte con le mirabolanti invenzioni di Giorgio Scerbanenco, giallista di gran fiuto che si legò a Lignano, già luogo cosiddetto hemingwayano per una visita dello scrittore americano quando solo l’immaginazione poteva proiettarla verso un futuro radioso.
Già. Ebbene, il Premio Scerbanenco è un incontro che lo celebra attraverso scritti contemporanei. Nell’ambito degli eventi domenica 29 ottobre, saranno in programma due proiezioni: alle 17 Calibro 9 (2020) di Toni D’Angelo e, appunto, Milano Calibro 9, il capostipite. In platea siederanno il regista e la sceneggiatrice Francesca Serafini.
Non è un remake, e questo ci è chiaro D’Angelo. Vogliamo definirlo un omaggio a Di Leo con una storia che, in qualche modo, continua?
«Direi che è la definizione corretta. Mai avrei potuto rifarlo, quel film. Certe pellicole non si toccano e basta. A tutt’oggi è un’opera che va protetta per come fu girata e per il cast pazzesco: Moschin, Adorf, Bouchet, Pistilli, Leroy. La voglia di accettare una sfida emerse con una chiacchierata fra me e il produttore Gianluca Curti, figlio di Ermanno che produsse Milano Calibro 9. Curioso, no? Un destino, forse».
Anche lei, però, si è circondato di interpreti griffati: Bocci, Rappoport, la stessa Bouchet, Placido, Boni, che è il commissario Di Leo. Più chiaro di così!
«Vorrei fosse palese pure l’inchino a uno dei più grandi costruttori di noir: Giorgio Scerbanenco. Non nego di amare questo genere cinematografico, pur avendo iniziato con Una notte, una storia d’amicizia; quindi, col tempo, è salito il desiderio di dare un’accelerata all’azione».
Lei è il figlio di Nino. Che dice suo padre? Guarda i suoi film? La consiglia?
«Con papà c’è una bellissima intesa. Lui è il primo a leggere i soggetti e a consigliarmi. Inizialmente avrei voluto seguirlo nella musica. In realtà suono, anche se sono un autodidatta. Studiando al Dams di Bologna, però, cominciai a innamorarmi del cinema».
Facendo due calcoli era all’incirca il Duemila: che cinematografo amavate voi studenti di quegli anni?
«Andavano forte Ciprì e Maresco, erano trasgressivi e diversi dal gruppo dei cineasti, per quello mi e ci piacevano parecchio. Frequentavamo una sala che poi adesso è la sede della Cineteca. Allora la “visita” era giornaliera, d’altronde se non ci ingozzavamo di celluloide noi che avremmo fatto il cinema, chi sennò? Poi i Dardenne, i fratelli francesi. Proprio nel 1999 vinsero Cannes con Rosetta e divennero subito una nostra preda».
Ha idee per un nuovo lavoro?
«Appena finito di scriverlo».
La gente ha perso la voglia di grande schermo secondo lei?
«La pandemia ci ha abituati al divano. E ci siamo impigriti. Di solito i cicli poi finiscono e si ricomincia».
Però i grandi incassi sono rarissimi.
«Qualche americano, ovvio. Un tempo Leonardo Pieraccioni divenne un re, negli ultimi anni lo scettro passò a Checco Zalone, ma sono episodi sporadici. È sparito pure il film di Natale, se ne è accorto? C’è confusione fra piattaforme e sale: si ricorda l’ultimo Sorrentino? Pochi giorni nei cinema e ce lo ritrovammo a casa. Una discreta macedonia».