Treviso, il crollo delle ditte a conduzione giovanile
Non invecchia solo la popolazione: l’inverno demografico porta con sé anche un progressivo calo delle aziende “giovanili”, cioè quelle gestite da titolari under 35. Negli ultimi otto anni, dal 2015 al 2023 (l’arco temporale fotografato dalla Camera di Commercio), in provincia di Treviso le ditte giovanili sono calate di 394 unità. Il ragionamento non vale per tutti i settori - l’agricoltura è in controtendenza - ma è sintomatico delle conseguenze che denatalità e invecchiamento hanno sul tessuto produttivo: «La quota di giovani che fa impresa continua ad assottigliarsi» commenta Mario Pozza, presidente Camera di Commercio, «aspettiamoci, come per la manodopera, sempre più imprenditori stranieri: non c’è alternativa».
La ricerca
Negli ultimi otto anni è calato non solo il totale delle imprese giovanili, ma anche la loro incidenza sul totale delle ditte, passata dal 7,30 al 6,80 per cento.
Ricambio generazionale e imprenditoria giovanile non sembrano concetti cari al tessuto locale. Invecchia il commercio: da 1.565 a 1.157 ditte giovanili.
Trend evidente anche nella manifattura: oggi sono 416 le attività gestite da under 35, erano 528 otto anni fa. Crollano anche le costruzioni (dove però le dinamiche risentono dei vari bonus e superbonus), dove i giovani impresari sono passati da 1.144 a 890. In diminuzione la quota di “capitani d’industria” under 35 anche nei servizi alle persone, nell’alloggio e nella ristorazione.
In controtendenza ci sono soltanto l’agricoltura e i servizi alle imprese.
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Manodopera in crisi
Siamo una provincia, quindi, che non trova il 60% della manodopera necessaria alle imprese, ma ora non trova nemmeno chi quelle imprese dovrebbe guidarle. E la situazione non migliorerà, considerando le proiezioni dell’Istat che vedono, al 2042, la Marca con 35.435 giovani in meno rispetto a oggi e 53.372 anziani in più.
«Di questo passo si rischia di fermare gli impianti» sottolinea ancora Pozza, «e dal punto di vista dell’artigianato, stiamo perdendo professionalità e mestieri che non riusciamo a preservare. Per quanto riguarda il reperimento di manodopera ho sempre avuto un’idea chiara, in linea con quella di molti imprenditori: se non c’è in Italia, bisogna andare a prenderla all’estero.
Qualificata o pronta a essere formata. Già oggi le nostre scuole professionali sono quelle più frequentate dai figli degli immigrati: basti pensare che il 63% degli studenti delle professionali, nella nostra provincia, è figlio di extracomunitari. La maggior parte trova subito lavoro.
Aspettiamoci che cresca anche il numero di imprenditori stranieri».
Artigiani francesi
Pozza cita un episodio significativo di qualche giorno fa: «Durante una mostra a Venezia, ho avuto modo di parlare con un artigiano locale che aveva acquistato alcune attrezzature da un collega che aveva chiuso bottega per mancato ricambio generazionale.
Bene, questo artigiano oggi non trova praticanti italiani, e sta formando quattro apprendisti francesi: parliamo del “terrazzo alla veneziana”, un tipo di lavorazione che, di questo passo, rischiamo di non riuscire più a fare con le forze locali.
Anche al nostro Paese serve una strategia di questo tipo, altrimenti non avremo altra prospettiva che quella di veder morire i nostri vecchi mestieri, e di non garantire più la produzione di determinati beni a livello industriale».
Piovesana: «La soluzione si chiama Ius Scholae Cittadinanza a chi ha studiato in Italia»
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Maria Cristina Piovesana, presidente e amministratore delegato di Alf Group, già guida degli industriali trevigiani e vicepresidente di Confindustria con la delega ad Ambiente Sostenibilità Cultura, interviene nel dibattito sulla denatalità con un occhio rivolto alle strategie che le imprese devono mettere in campo, e l'altro ai bambini, non solo quelli italiani.
Quanto impatterà il fenomeno della denatalità sulle aziende?
«Quello della demografia è un tema che non è più solo sociale, di fatto è un tema economico. Meno nati significa insostenibilità della spesa del welfare della nostra nazione, perché il tasso di ricambio della popolazione in particolare all'interno delle aziende per produrre ricchezza e produrre tutti i servizi di cui disponiamo oggi, viene messo a repentaglio. Si tratta di un tema che doveva essere affrontato 15/20 anni fa. Se oggi nascessero tanti bambini, potremmo vederne gli effetti positivi solo sul lungo termine. Uno dei problemi principali del nostro paese è l'incapacità di fare politiche a medio lungo termine».
Si tratta quindi anche di un tema politico?
«In 70 anni di repubblica siamo stati costantemente in campagna elettorale. Chi vota è una popolazione sempre più anziana che ha obiettivi diversi rispetto a chi ancora non c'è, che non ha nessuna voce in capitolo. La nostra visione invece dovrebbe essere così lungimirante invece da tenere conto anche dei cittadini futuri».
Siamo quindi spacciati?
«La denatalità non è un destino ineluttabile che è legato alla modernizzazione economico e sociale, tant'è che il tasso di natalità maggiore in alcune zone tra le più ricche come la Francia, la Germania e la Danimarca, ma anche qui da noi regioni come il Trentino Alto Adige. Questo significa che è possibile mettere in atto delle azioni affinché il nostro sistema socio economico permetta alle donne di avere il primo figlio. Avere figli non deve essere rinuncia al lavoro e alla carriera e non deve essere impoverimento per quelle coppie che decidono di diventare genitori. L'altro aspetto è garantire alle giovani coppie di poter fare figli e vivere dignitosamente senza dover fare troppe rinunce».
Oltre al governo chi dovrebbe intervenire?
«La denatalità rappresenta un tema collettivo che interessa tutta la nostra società e oggi abbiamo bisogno di affrontare il tema dal punto di vista politico, per avere più risorse per la famiglia e non solo quando nasce un bambino, perché un figlio va accompagnato fino alla maggiore età. E poi ci deve essere anche un cambio culturale da parte dell'azienda. Se una donna aspetta un figlio, l'azienda dovrebbe predisporre una organizzazione tale da supportare i genitori, ci deve essere apertura mentale delle aziende nel cercare di conciliare la vita personale con quella lavorativa, a cominciare dagli orari flessibili. E, infine, ci dovrebbe essere un cambio di passo anche delle scuole: bisognerebbe riformulare i tempi della scuola in modo che coincidano con quelli del lavoro dei genitori. Questo farebbe in modo che una donna non debba rinunciare al lavoro che le piace e poter essere madre e lavoratrice soddisfatta».
Tornando alle aziende, sono pronte ad una ulteriore mancanza di personale?
«No, è un problema enorme, ma le aziende stanno dimostrando nuova attenzione nei confronti delle donne e della maternità, sono mature per il cambiamento, in una logica di sussidiarietà nei confronti dei loro dipendenti».
Come si può risolvere la situazione?
«Abbiamo bisogno di un rinnovo perché ognuno è interprete della propria epoca e riuscirà a costruire un futuro per azienda e società. Questo implica il riconoscimento di quei bambini che nascono in Italia da genitori stranieri. Sono giovani cittadini che assorbono valori e principi etici del nostro Paese. Quindi penso che debba essere favorita la nascita di bambini in Italia da genitori stranieri. Questo potrebbe portare a un equilibrio e tenuta dei conti pubblici e delle aziende che contribuiscono al Pil, è una nuova linfa grazie a persone portatrici di entusiasmo, interpreti della loro epoca. Ecco perché sono convinta che andrebbe applicato lo Ius Scholae».
Cosa intende?
«Quando un bambino ha fatto un percorso di studi nel nostro Paese dovrebbe aver diritto di ottenere la cittadinanza italiana e non dovrebbe sentirsi escluso da un Paese nel quale è nato e vive ogni giorno. I bambini sono agenti formidabili per l'integrazione di mamma e papà. Oggi questi ragazzi non possono chiedere la cittadinanza fino ai 18 anni. Cambiare queste dinamiche potrebbe rappresentare una soluzione al tema della denatalità».
Il tema dell'immigrazione torna centrale?
«È un tema da affrontare in modo pragmatico. Il 20% dei lavoratori delle nostre imprese sono arrivati da altri Paesi e se oggi non ci fossero sarebbe un problema: l'immigrazione è positiva, soprattutto come oggi che abbiamo un problema di denatalità, ma anche perché gli italiani non vogliono fare determinati lavori. Ma deve essere strutturata e dignitosa».
L’economista Minello: «Invecchiamento "gemello" di persone e imprese Non attraiamo più i ragazzi»
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L'intervento dell’economista Alessandro Minello
L'invecchiamento della classe imprenditoriale è un fenomeno che interessa tutte le economie avanzate, soprattutto quelle mature. Questo fenomeno colpisce anche le aree che evidenziano maggiori vocazioni imprenditoriali, come ad esempio il Veneto e la provincia di Treviso.
Non ci sorprendono, pertanto, i dati sulla longevità della classe imprenditoriale, numeri che testimoniano un processo oramai in atto da tempo e che io definisco "invecchiamento gemello", ovvero della popolazione e degli imprenditori, un fenomeno che tende ad aggravarsi nel tempo. Ma da cosa dipende, in particolare, l'invecchiamento della classe imprenditoriale?
L'invecchiamento imprenditoriale dipende da fattori che potremmo definire di "offerta" e di "contesto".
Sotto il profilo dell'offerta di giovani imprenditori, tra le principali cause di declino rientrano sicuramente la denatalità e il conseguente invecchiamento demografico, la riduzione del tasso di orientamento all'imprenditorialità tra i giovani, uno scarso orientamento al rischio e più alla rendita, l'emigrazione dei talenti, la ritardata autonomia economica dei giovani.
Sotto il profilo del contesto, che è legato al territorio, possiamo citare la presenza di un ambiente che non accompagna sufficientemente i giovani al fare impresa, la specializzazione in attività mature e poco avanzate sotto il profilo tecnologico, l'inadeguata cultura d'impresa in epoca della complessità, le difficoltà di accesso al credito da parte dei giovani, la mancanza di un adeguato sistema di incubazione, anche culturale, di start up giovanili.
Tutti questi fattori, tanto dal lato dell'offerta quanto da quello del contesto, incidono negativamente sul livello di imprenditorialità giovanile poiché, alla fine, riducono le opportunità legate a una scelta che finisce per non attrarre più i giovani. Le crescenti difficoltà che il giovane incontra nel creare una propria attività d'impresa tendono a dissuaderlo e fargli aumentare il costo-opportunità di compiere altre scelte oppure di spostarsi verso altri territori, soprattutto all'estero.
Ma la cosa peggiore è la tendenza all'assuefazione, ovvero il sistema tende ad abituarsi, anno dopo anno, a una classe imprenditoriale anziana così come sta accadendo per la società, che si sta abituando alla presenza crescente di ultrasessantenni. Questo processo di adattamento genera accumulazione di "anni di età e di esperienza" ma non di idee nuove, di utopie imprenditoriali, di rischio, di ricerca del nuovo. Alla fine, determina un sistema di servizi e strumenti sempre più orientato alle esigenze della popolazione anziana e dell'imprenditore anziano. In sostanza tende a perpetuarsi e ad aggravarsi.
Ecco allora come sia necessario agire sin da subito e affrontare "l'invecchiamento gemello" lavorando sulla centralità della qualità della vita, sul ruolo della famiglia, sulla considerazione che i giovani rappresentano il più grande investimento sul futuro, sul ruolo anche sociale del fare impresa giovanile. L'invecchiamento gemello non lo si arresta in un giorno ma lo si può fare ne l medio termine lavorando strutturalmente sugli squilibri.