Benjamin Labatut: «Solo andando verso i nostri limiti potremo garantirci la sopravvivenza»
Benjamin Labatut è diventato un fenomeno mondiale con la sua capacità di leggere il passato mantenendo lo sguardo al presente e disseminando il futuro in ogni sua riga. Potremmo dire che sarebbe un perfetto insegnante di Storia; certo non convenzionale perché parte da dettagli, pensieri e azioni apparentemente destinati a rimanere nello spazio di una vita, mentre invece arrivano poi ad influenzare i grandi fatti dell’umanità e della natura.
Nel suo primo libro, “Quando abbiamo smesso di capire il mondo”, Labatut ha spiegato come la conoscenza non abbia mai avuto uno sbocco univoco nella realtà. Ciò che è stato pensato per uno scopo, ad esempio rendere più fertili i terreni agricoli, ha avuto poi come utilizzo alternativo quello di potenziare le capacità belliche. Allo stesso modo, l’esordio di Labatut aveva messo l’ingegno umano di fronte alle sue responsabilità storiche, perché il fervore intellettuale è stato spesso sfruttato per scopi mortiferi.
La Gazzetta aveva intervistato lo scrittore cileno alla vigilia del Festivaletteratura 2021, al quale aveva partecipato in diretta streaming per le limitazioni che ancora vigevano a causa del covid.
Da allora è uscito anche “La pietra della follia”, altro capolavoro assoluto. Due anni dopo, eccoci in compagnia di “Maniac”, edito da Adelphi.
Dopo aver divorato “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” e “La pietra della follia” ho amato “Maniac”, anche perché introduce il tema dell'intelligenza artificiale che affrontammo anche nell'intervista di due anni fa, quando ancora la diffusione dell’AI non era ai livelli attuali soprattutto negli Stati Uniti d’America. Allora lei mi disse che l'intelligenza artificiale era da considerare un golem, un idolo a cui rischiamo di aggrapparci. La pensa ancora così oppure qualcosa è cambiato?
«Penso che l’intelligenza artificiale sia un potere grezzo e astratto. Ma è priva di corpo, coscienza e desiderio, e quindi, direbbe qualcuno, è incapace di generare quel calore primordiale che i Veda chiamano tapas – l’ardore della mente, il fervore da cui nasce tutta l’esistenza – e che ancora arde, per quanto debolmente, dentro ognuno di noi».
Che idea si è fatto della volontà di concepire una mostruosa macchina capace di calcolare all’infinito fino a raggiungere numeri di grandezze prima inconcepibili? Significa secondo lei accettare i limiti umani e delegare il resto alla macchina, oppure significa voler dotare l'uomo di un super-potere?
«La volontà è qualcosa che, per quanto ne sappiamo, esiste pienamente (e in un modo molto strano) solo negli esseri umani. Ma siamo già, per molti aspetti, come gli dèi che abbiamo sempre sognato; abbiamo capacità simili a super-poteri: possiamo guardare indietro alla prima luce dell'universo, possiamo fare a pezzi gli atomi, possiamo riscrivere il DNA e smontare il mondo con formule matematiche. Ma siamo anche, come gli antichi dèi del mito greco, imperfetti, insensibili, ignoranti e meschini».
Il suo ultimo libro, il “Maniac” fa volare l'uomo nelle praterie dell'intelligenza artificiale, ma allo stesso tempo lo mette a rischio di estinzione per le implicazioni belliche di queste rivelazioni scientifiche. Le stringhe di numeri possono governare il mondo, spiegare il più piccolo fenomeno naturale, e possono distruggere interi Paesi. In proposito del carico di responsabilità, viene in mente il fisco italiano Ettore Majorana, scomparso nel nulla nel 1938 dopo aver lavorato a lungo sulla meccanica quantistica e sulla fisica nucleare. Come spiega queste pulsioni dalla doppia valenza?
«L’unico modo per garantire la nostra sopravvivenza a lungo termine è essere continuamente portati ai nostri limiti dai prodotti della nostra immaginazione. Siamo ancora animali che hanno bisogno di imparare, e i tanti giochi a cui giochiamo, per quanto mortali, sono probabilmente necessari per affrontare l’incertezza che riserva il futuro. Sicurezza e continuità sono anche modi per procedere verso l’estinzione. E sebbene sia importante conservare, preservare e coltivare i nostri angeli migliori, essi non possono prepararci per l’ignoto. Abbiamo bisogno di lampi di orrore, mostri e miracoli, momenti di vera ispirazione ultraterrena. Perché l'esistenza è una faccenda mortale e noi siamo chiamati, da tutti i poteri di questo e di altri mondi, ad essere sia miracolosi che mortali».
Trovo meravigliosa la parte sul gioco del Go (e sul mondo di appassionati che lo circonda) e delle sfide a scacchi; giochi in cui nel libro fa irruzione l’intelligenza artificiale. Manovrata dagli uomini, la macchina sembra incarnare pregi e difetti dei giocatori in carne e ossa: può essere svogliata o molto aggressiva. Può anche essere spiazzata da una mossa a sorpresa del suo antagonista umano. Può raccontarmi come è riuscito a ricostruire il lavoro della "macchina infernale" che è diventata invincibile? Pensa che la macchina uccida il significato più profondo del gioco?
«Nient’affatto. Il significato è qualcosa che solo il genere umano può creare e godere. Il significato non ha senso per gli esseri meccanici di questo mondo. Quindi non c'è morte qui, solo una parte di noi che si è evoluta oltre noi. Penso che, anche se il nostro dominio sulle macchine in questi domini strettamente vincolati alla logica è chiaramente finito, c’è una nuova bellezza da scoprire. AlphaGo ha portato qualcosa di spettacolare nel mondo del gioco del Go. Spero che ci siano altri miracoli simili che ci aspettano davanti a noi. Ci sono sempre, ma vengono avvolti in una maledizione».
Quando anche in Europa e in Sud America l'intelligenza artificiale invaderà le scuole e i luoghi di lavoro, come cambieranno, secondo lei, i parametri per giudicare l’operato delle persone?
«La scuola e il posto di lavoro hanno sempre avuto la tendenza ad accamparsi nel terreno della mediocrità. Non ho idea di come sarà il futuro (questa è la cosa più meravigliosa e terrificante del nostro tempo) ma sono sicuro che, sia a scuola che al lavoro, ci saranno sempre molti uomini e donne che non saranno del tutto soddisfatti del mondo, che hanno fame di rarità, che si sforzano di essere singolari, che sentono il richiamo dello spirito. Le macchine intelligenti possono cambiare tutto nel mondo materiale ma noi, come esseri umani, prosperiamo e ci nutriamo di regni che sono, per la maggior parte, invisibili, inconsci e immateriali. I veri giudici del nostro lavoro sono per lo più silenziosi e non si trovano in classe».
Può raccontarmi come ha impostato il suo lavoro preparatorio per scrivere “Maniac”? Quanta fantasia ha messo nella storia e quanto è stato difficile recuperare i fatti reali? Leggendo il libro sembra quasi di vivere nell'epoca di cui il libro racconta, ma in effetti questa constatazione vale anche per i suoi precedenti lavori.
«Il mio processo di scrittura è un po’ strano, in effetti. Seguo la realtà e i fatti il più da lontano possibile, ma molte volte le storie (anche la Storia stessa) hanno strani significati nascosti a cui solo la finzione e l'immaginazione possono arrivare. Scrivere è un rito, stai cercando di riportare lo spirito nella materia. Quindi ricerco tutto quello che posso e cerco di essere posseduto. Bruciare con una parte del fuoco che animava Paul Ehrenfest, John von Neumann, Lee Sedol. Per poter comunicare con il fantasma che vive all’interno di Maniac e alphago.