La Vècia, il burièl e i riti dell’Epifania
Un tuffo nel passato: come si festeggiava il 6 gennaio nella Bassa e nell’Alto Mantovano. Giovanni Tassoni 60 anni fa raccontò i riti in un libro sulle nostre tradizioni popolari
Passato Capodanno ci sono quattro giorni tranquilli, per fare digiuno o finire le degustazioni con ciò che è rimasto nel frigorifero. Ma già la Befana ha preso il volo a cavallo di una scopa e sta per arrivare. Per rendere omaggio a Gesù Bambino venuto al mondo a Natale, a dorso di cammello arrivano nel presepe i re Magi: è l’Epifania, il 6 gennaio, l’ultimo giorno delle feste del ciclo natalizio. L’Epifania tutte le feste porta via. Per festeggiare di nuovo bisogna aspettare il Carnevale. Intanto la tradizione esige di farla finita con l’anno vecchio. Alla mezzanotte fra il 31 dicembre e il primo gennaio gli si è sparato, più o meno simbolicamente.
Il buriel
Per la Befana lo si brucia, con sei giorni di ritardo, insieme alla Vècia: è il burièl, mentre ci si riscalda col fuoco e col vin brulé. Non è un motivetto della civiltà contadina, ma di quella industriale: «Copa la vècia col flit e, s’la mör mia, col gas». Il flit è il Ddt, l’insetticida sterminatore di zanzare, cancerogeno. I riti epifanici, nel nostro territorio, sono due, analoghi ma distinti: uno profano, cispadano, di qua dal Po, rispetto a Roma; l’altro nell’area collinare, di là dal Po, pervaso di sincretismo religioso, un misto di credenze diverse. Per semplificare, uno nella Bassa e l’altro nell’Alto Mantovano.
Le tradizioni popolari
A descriverli è Giovanni Tassoni, 60 anni fa, nel libro sulle nostre tradizioni popolari, 1964, quando la sera della Pifanìa si potevano ancora vedere i monelli dell’Oltrepò fare del casino per tutto il pomeriggio intorno a una catasta di sterpi e di rovi e poi schiamazzare per le vie «con un fantoccio raffigurante una vecchia strega» che veniva portato al rogo, il burièl, in fondo al paese, al grido di «brüsa la vècia rampina…» cui talvolta seguiva il nome di qualche anziana signora antipatica ai piromani. Nei paesi delle colline moreniche ardevano i “borielli” tra grida di giubilo, saltando e cantando intorno al fuoco. Ogni paese aveva la propria tradizione. A Medole il burièl serviva per illuminare la via ai re Magi. A Cavriana veniva rappresentato un presepe vivente accanto alla pira alta almeno 5 metri, che prendeva fuoco allo scoccare dell’avemaria, al tramonto. Etimologia di burièl: dal latino “comburere” da cui anche l’inglese “to burn”, bruciare. Il fuoco, nella tradizione, serviva anche ad asciugare i pannolini di Gesù, così la Madonna poteva cambiarglieli, belli caldi. L’amore della mamma per il suo bambino. Scrive Tassoni: «Dalla direzione del fumo i villici traggono gli auspici per l’annata, e dalla maggiore o minore quantità di faville indovinano l’esito del bozzoli, mentre le rasdore non debbono guardare il falò a capo scoperto, se vogliono avere una bella covata di pulcini». L’economia si fondava anche sui bachi da seta e le future galline assicuravano uova e carne da brodo alle donne "reggitore" della casa. La sera, le ragazze in età da marito mettevano fuori dalla finestra una tazza d’acqua, che durante la notte ghiacciava. Oggi, con il riscaldamento globale, la tazza dovrebbe essere messa nel freezer. La mattina, dagli arabeschi formati sul ghiaccio (la vaga immagine di una sega, di una vanga o di un martello) le ragazze coglievano il mestiere del futuro sposo.
La Befana
La Befana era la festa dei mantovani e delle mantovane con il naso prominente, la canàpia, che esitavano a uscire di casa per non essere presi in giro: «Ch’an àpia mai da piövar / ch’an a piòn acsì ‘d bisogn», tutto storpiato e giocato sulla canàpia e sul canapión, naso e nasone, per mettere in chiaro: «Che non abbia mai da piovere / che ne abbiamo così bisogno», dalle narici poteva venire giù il diluvio universale. Infine l’adagio venato di rimpianto: «La Pifanìa, tüte le feste la para via».