«Famiglie sole e impreparate davanti ai disturbi alimentari»
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Una mamma con la figlia 14enne rimandata a casa dal pronto soccorso «Niente empatia, si rischia di sviluppare atteggiamenti di rifiuto terapeutico»
IVREA
Vedere la propria figlia di 14 anni deperire giorno dopo giorno. Vedere una ragazza vivere con due pavesini e un cetriolo, aggravarsi nel giro di pochi mesi. Toccare con mano, nella propria famiglia, cosa siano i disturbi dell’alimentazione e quanto sia difficile essere presi in carico, rendersi conto che si ha che fare con un problema che necessita di un approccio multidisciplinare e constatare che i numeri della domanda fanno sì che sia molto difficile trovare risposte adeguate e incisive. Premessa: che il problema dei disturbi alimentari sia un problema che riguarda sempre più adolescenti, soprattutto ragazze, e che servano risposte adeguate è nella convinzione anche del consiglio comunale, che nell’ultima seduta ha approvato all’unanimità una mozione a firma di Nella Franco e presentata con Pd, Laboratorio civico e Viviamo Ivrea, che impegna la giunta a un impegno concreto anche nei confronti dell’Asl/To4, per il consolidamento e il mantenimento del centro di Ivrea.
La storia che una mamma ha affidato alla Sentinella è emblematica. «In data 8 maggio mi sono recata all’ospedale di Ivrea perché mia figlia è affetta da un grave disturbo dell’alimentazione e nei giorni precedente era caduta per la mancanza di forze», racconta.
Madre e figlia vivono in provincia di Torino, ma fuori dall’Asl/To4 e il suggerimento di recarsi a Ivrea era arrivato da Torino, segnalato per buone competenze. Non è facile, per chi soffre di questi disturbi, accettare di essere aiutati e curati perché, semplificando, non hanno la percezione del proprio stato di salute. «Ci siamo recati in ospedale convinti che le sue condizioni (grave magrezza e astenia) - aggiunge - avrebbero indotto i medici del pronto soccorso a ricoverarla o quanto meno a richiedere urgentemente un consulto specialistico da parte di un neuropsichiatra infantile, e invece abbiamo trovato mancanza di conoscenza verso questo genere di disturbi». Vengono effettuati alcuni esami e la decisione è di rimandare a casa la ragazza: «Ho insistito perché quanto meno mia figlia venisse pesata, come tra l’altro prescrive il protocollo del ministero della Sanità per i casi di questo genere, e la risposta della dottoressa è stata, cito testualmente, “ma con tutta la strada che ha fatto non poteva fermarsi in una farmacia a pesarla?”, quando è ovvio che nel contesto famigliare, la ragazza oppone un rifiuto a ogni tentativo di valutare le sue reali condizioni di salute». «Il clou – aggiunge – l’abbiamo raggiunto al momento della distribuzione dei pasti, quando mia figlia è stata messa nell’angolo di una camerata (maschile) davanti a un vassoio e si è sentita intimare di non alzarsi dalla sedia fino a quando non avesse terminato tutto il pasto. Ovviamente non ha fatto il minimo cenno di mangiare». Il racconto della giornata continua. Alla fine, la ragazza viene dimessa «nonostante un indice di massa corporea pari a 14,33 kg/m2 che, sempre secondo i parametri del ministero della Sanità, è sintomo di una grave magrezza e nonostante fosse stato spiegato alla dottoressa che la ragazza aveva finalmente acconsentito a essere curata e che questa sua decisione andava accolta e sfruttata per avviare un percorso terapeutico». «L’unica concessione - conclude la mamma - è stata la prenotazione di una visita specialistica con il neuropsichiatra infantile a sei giorni di distanza». Sei giorni che trascorrono lentissimamente. «Abbiamo però ricevuto l’incoraggiamento della dottoressa a mangiare: “non ti preoccupare, se mangi un pochettino mica ingrassi, guarda me, io mangio ma mica sono grassa”, frase che ha dimostrato ancora una volta la mancanza di conoscenze verso questo genere di disturbi che, nella maggior parte dei casi, non sono dovuti al desiderio di essere magri (e mia figlia magra lo era già prima), ma sono l’espressione di un grave malessere interiore che ha cause profonde».
Questa mamma sa che il suo è uno sfogo: «ma è giusto che si getti un po’ di luce sul dramma dei disturbi alimentari perché le famiglie davanti a queste situazioni sono totalmente impreparate e, quando si rivolgono a una struttura medica, devono ricevere empatia ed essere accolte nella loro preoccupazione. Inoltre, in questi casi, si rischia di sviluppare nelle giovani pazienti convinzioni errate che portano di nuovo al rifiuto di ogni intervento terapeutico, come nel caso di mia figlia che uscendo dall’ospedale mi ha detto “vedi che allora non sono così grave, se no mi ricoveravano”...».