Fine vita, il figlio di Sibilla Barbieri: «Dolore e rabbia per un’ingiustizia che nega la libertà»
TRIESTE «Mia madre ha sofferto fino a quando non è stata libera: insieme siamo stati l’Antigone». Vittorio Parpaglioni è il figlio di Sibilla Barbieri, la regista e attrice andata a morire a novembre in Svizzera come malata oncologica terminale, dopo il diniego in Italia al suicidio medicalmente assistito. Lui, Vittorio, invece, si è autodenunciato con Marco Cappato alla caserma dei carabinieri di Roma. «Ho deciso autonomamente di accompagnarla a una pace dignitosa», racconta: perché anche se sua madre Sibilla, come Martina Oppelli, non dipendeva da un macchinario per vivere, la sua «non è stata pace. Fino alla fine».
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Ha visto l’appello di Martina Oppelli, la triestina che chiede di accedere al suicidio assistito? Cosa ha provato?
«L’ho visto. E ho provato lo stesso dolore, la stessa rabbia che sento da quando ho perso mia madre nelle condizioni in cui infine è stata costretta a morire. Un senso di ingiustizia per una persona che chiede di vedersi riconosciuto un diritto già sancito da una sentenza. Mi ha colpito la sua richiesta di morire col sorriso sul viso: uno sforzo immenso, che non riesco a comprendere neanche avendolo visto da vicino».
In queste storie l’invito è spesso di immedesimarsi nei panni dei malati. Lei, invece, cosa ha provato nelle vesti di chi ha accudito una donna, sua madre Sibilla, che ha sofferto fino alla fine?
«È stata una responsabilità di aiuto che va oltre l’ego. Era mia madre e non volevo che morisse. Avrei voluto che vivesse. Ma non in quelle condizioni di sofferenza e sconforto».
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Quando ha deciso che l’avrebbe accompagnata a morire, in Svizzera?
«Quando sono stato capace di fare un passo indietro: non trattenerla, ma lasciarla andare. Ho messo me stesso al servizio di lei che mi ha dato la vita. E l’ho accompagnata nel momento più difficile della sua».
Lei si è autodenunciato ai carabinieri di Roma, appena rientrato in Italia.
«Oggi rischio fino a 12 anni di carcere, per una legge di epoca fascista che non prevede il diritto all’autodeterminazione, sancito dalla Costituzione. Ma lo rifarei ancora».
La lotta di Sibilla continua?
«La porto avanti e con me chi continua a disobbedire per il diritto di scegliere. Che non riguarda solo il fine vita ma attiene alla libertà di vivere i nostri corpi e autodeterminarci».
Sua madre dipendeva da a ossigenoterapia e farmaci per il dolore che, se interrotti, l’avrebbero presto condotta alla morte. Perché allora tanta difficoltà a riconoscere questo, o l’assistenza di terzi, come un sostegno vitale?
«Vorrei porre la stessa domanda a chi non ha bisogno di ossigeno e farmaci come mia madre, o del continuo aiuto di badanti come per Martina. Chiedere loro come si sentirebbero se sapessero di non poter mangiare, lavarsi, andare in bagno autonomamente. Chiedere loro se questo è vivere, sentendo di pesare costantemente sulle spalle degli altri. Io l’ho visto e so che non è una vita libera».
Neanche Anna, la triestina morta di suicidio assistito lo scorso novembre, dipendeva da macchinari: eppure nel suo caso la commissione medica si espresse diversamente. Perché, secondo lei, tanta differenza nelle risposte ai malati?
«C’è soggettività nell’interpretazione della sentenza “Cappato”, insita nei confini lasciati aperti da un testo mai discusso in Parlamento. Forse per timore di posizionarsi: l’ennesima mancanza di rispetto nei confronti dei cittadini, costretti a una sofferenza indicibile. E a una lotta continua».
Che cosa si sente di dire a Martina?
«Che ha il mio sostegno, qualsiasi sarà la sua scelta. E anche ammirazione, perché ci vuole tanto coraggio a esporsi e a lottare, per essere libera».f.c.