Uccise il collega con cento colpi di cacciavite: assolto
Aveva ucciso con oltre cento colpi di cacciavite alla testa, al torace, alla pancia il compagno di lavoro Ilir Dervishi, colpendolo al termine di un’aggressione valutata dal medico legale come «complessa, della durata minima di alcuni minuti, compatibili con la posizione seduta sui sedili anteriori di un’auto».
Giovedì 20 giugno però il tribunale di Bologna ha assolto Miri Gurra dai reati a lui contestati in quanto «commessi da persona totalmente incapace di intendere e di volere».
Già nello scorso febbraio, la relazione della psichiatra Matilde Forghieri aveva concluso che a muovere la mano di Gurra – il 13 settembre dello scorso anno – era stato un raptus omicida derivante da «un disturbo delirante di tipo persecutorio», che lo ha reso «totalmente incapace di intendere e volere», e al contempo «persona pericolosa socialmente», motivo per cui l’uomo dovrebbe essere curato e assistito in una comunità, seguendo la terapia di un centro di salute mentale, e non incarcerato.
Gurra aveva colpito a più riprese l’amico e collega di Eraclea continuando a guidare il furgone con il quale stavano andando a Bologna per lavoro, tenendo il volante con la destra e impugnando il cacciavite con la sinistra, fino a finire in un fosso. A febbraio, davanti al giudice per le indagini preliminari di Bologna, si era svolto l’incidente probatorio – alla presenza anche dell’avvocato Renato Alberini, legale della vedova e dei figli di Dervishi – che aveva aperto le porte al proscioglimento di Gurra dall’accusa di omicidio volontario per la sua patologia psichiatrica.
Ilir Dervishi era rimasto vittima del delirio letale di Gurra che infatti ai magistrati aveva raccontato di un complotto inesistente ai suoi danni. In particolare, l’uomo era convinto che nella sua autovettura fossero presenti delle microspie installate da Ilir o la sua organizzazione criminale.
«Nel corso del viaggio», le sue parole riferite ai magistrati, «Ilir aveva fatto dei discorsi che ho interpretato come minacce velate alla mia famiglia: in particolare parlava dell’incidente delle Frecce Tricolori sottolineando che era morto un bambino di pochi anni come mio figlio. Superata Ferrara, ho iniziato a rimuginare le minacce indirette che Ilir aveva fatto e istintivamente ho afferrato con la mano sinistra un cacciavite di medie dimensioni. Ho iniziato a colpirlo ripetutamente. Mi sembra che Ilir tentasse di ripararsi. Ricordo che mi diceva: “Cosa stai facendo? Abbiamo dei figli da crescere” e io gli rispondevo: “Faccio quello che voi volete fare a me e alla mia famiglia”».