Zannier ripercorre la sua vita: ecco le cronache di un fotografo impenitente
Il suo libro Passeggiate udinesi fu stampato dalla tipografia Editrice Doretti di Udine nel 1960.
«Ma la passione per le immagini mi raggiunse e si alimentò a Udine – ricorda il grande fotografo, docente e storico della fotografia Italo Zannier –, quando frequentavo la Biblioteca Civica, per studiare un capitolo di Storia dell’Arte, sulla pittura a encausto nell’antica Grecia, sbiadita nel tempo».
Ogni giorno andando al Ginnasio si fermava davanti a un piccolo affresco in una nicchia all’esterno della Chiesa di San Francesco, vicino al Liceo Classico “Stellini”.
All’età di 92 anni, compiuti lo scorso 9 giugno, Zannier ripercorre la sua vita, un’esistenza interamente dedicata alla fotografia e al suo significato più profondo nel libro Cronache di un fotografo impenitente.
Una autobiografia (La Nave di Teseo, pp. 224, 16 euro) da alcuni giorni nelle librerie. Una confessione intima e delicata che conduce direttamente nel cuore dell’immagine nel punto in cui vita e arte sembrano essere una sola cosa.
Un racconto di memorie, ricordi, incontri, scontri; una lunga avventura che Zannier continua a vivere con immutata passione, brillante lucidità non priva di guizzi, spesso destabilizzanti e netti nelle prese di posizione a sostegno delle sue idee, condite da determinazione e vis polemica. Un’autobiografia certamente destinata a lanciare sassi nel mare della fotografia, da vero “impenitente”.
La precisione nella definizione lo contraddistingue: come nel passaggio in cui sigilla il concetto di fotolibro, linguaggio espressivo che lo connota.
«Lo possiamo definire come un racconto, un romanzo o una poesia, impressi in un volume di illustrazioni fotografiche, affidato soltanto alle immagini, senza necessarie didascalie (semmai in appendice nomi, luogo, data); fotografie e basta».
Visione totalizzante della forza e autonomia di racconto dell’immagine. E insiste: «Occorre sempre ricordarsi che un fotolibro non è un “catalogo” ma semmai un romanzo senza parole».
Dalle vacanze d’infanzia sui monti di Pradis di Sopra fino alle prestigiose cattedre universitarie a Venezia e a Bologna, le memorie personali si intrecciano con la magia della camera oscura, delle mostre curate in Italia e nel mondo.
Degna di nota la cronaca della genesi e vernice nel 1994 a New York della “Italian Metamorphosis” esposizione d’arte di cui curò la sezione fotografica incontrando il gotha culturale internazionale come Emilio Vedova, Gae Aulenti, Gino Valle oltre al curatore Germano Celat.
Gustoso l’aneddoto tutto friulano nelle sale del Guggenheim dell’incontro con il presidente della provincia di Pordenone Sergio Chiarotto, con al seguito una delegazione di imprenditori desiderosi di avviare contatti commerciali.
Nell’autobiografia non viene taciuto il rapporto non facile con il Friuli: come il caso, nel 1966, del fotolibro “Il Friuli” uscito in Italia, con successo di vendite, critica, e ben retribuito dall’editrice dell’Automobile Club Italia, con testi dell’amico Elio Bartolini, ma paradossalmente povero di successo in Friuli dove, racconta Zannier «venne censurato dalla plebe culturale locale». Il paradosso fu che qualche anno dopo per lo stesso libro ricevette a Udine il prestigioso premio Alare d’Oro.
Fra i tanti motivi di eccellenza e orgoglio di cui è intessuto il libro l’essere stato il primo docente al Dams di Bologna ad avere laureati con tesi in Storia della Fotografia.
Da Venezia, dove fu curatore di Biennali d’arte e di Architettura, a Roma dove pubblicò volumi rimasti nella storia come Il quartiere barocco di Roma, a prestigiosi eventi, a Trieste, Firenze e nel mondo la fotografia di Zannier è sinonimo di lettura del reale in dialogo col passato.
«Ho estrema convinzione che l’immagine, quella fotografica soprattutto, sia il simbolo linguistico del tempo futuro come il cinguettio di un passero, che a sua volta si modifica nel tempo, ed è influenzato dal ciò che lo circonda: luce, cibo, colore, temperatura, suono».
L’autobiografia chiude con i versi dell’amato poeta friulano Pietro Zorutti: «Ma l’invenzion che pàr cuasi divine jè la fotografie».