Croazia-Italia presentazione
Dopo la sconfitta contro la Spagna abbiamo assistito alle solite considerazioni “nazional popolari”. “Tra Italia e Spagna c’è un abisso”, “la Spagna è avanti anni luce rispetto a noi”, “dovremmo prendere esempio dagli spagnoli”. Alcune di queste anche vere e inconfutabili, per carità. Che gli iberici ci abbiano surclassato credo nessuno possa negarlo, e lo stesso si può dire del fatto che hanno una nazionale dal punto di vista tecnico nemmeno lontanamente paragonabile alla nostra. Dove però non possiamo paragonarci agli avversari dell’altra sera è sulla mentalità votata al palleggio e al dominio del gioco. Ciò che abbiamo visto giovedì sera è stato un esempio di classica nazionale spagnola di alto livello contro un esempio di nazionale italiana rivistata. Cerco di spiegarmi meglio.
La principale fallacia argomentativa utilizzata nei giorni scorsi è stato il semplice e banale paragone delle due squadre come espressioni di movimenti e tradizioni calcistiche totalmente differenti. La Spagna ha un’identità ben riconoscibile, fondatasi nel tempo con le due anime, quella per dirla berlusconianamente “del bel giuoco” di Madrid e quella tramandata da Cruijff del Barcellona. Pur esistendo enormi differenze e addirittura odio tra le due squadre e città, in nazionale, quando si riescono a sposare, sono vincenti (per quanto in questa Spagna di Madrid ci sia poco, se escludiamo Carvajal e Morata, cresciuto nelle merengues). Quindi, ecco il possesso palla, il recupero alto del pallone, il fraseggio stretto e veloce, il gioco a 1-2 tocchi. La Spagna è questa e sempre lo sarà. Di contro, la tradizione italiana è un’altra: certo, la tecnica di base rimane qualcosa che anche da noi ha un peso specifico importante, ma il nostro gioco ha le proprie fondamenta in altre caratteristiche. Corriamo, siamo organizzati, tatticamente preparatissimi, difensivamente feroci. Un Italia-Spagna giocato tra i migliori interpreti delle due storie calcistiche, allenati dai migliori allenatori di sempre, avrà sempre a mio avviso lo stesso canovaccio: loro che fanno la partita, noi che ci difendiamo e ripartiamo. Cambiare qualcosa che si è sedimentato in così tanto tempo si può fare, per carità, ma non nel giro di un anno scarso da CT.
La sconfitta (o meglio, il torello) di giovedì è stato responsabilità più dell’Italia che merito della Spagna. Siamo stati presuntuosi ad avere l’idea che potessimo approcciarci alle furie rosse come all’Albania. Poca densità in mezzo al campo, con Rodri-Pedri-Ruiz che hanno giganteggiato su Jorginho e Barella. Contemporaneamente poco supporto sulle fasce a Di Lorenzo e Dimarco, con il primo vittima sacrificale di un Nico Williams indiavolato: ma dov’era Chiesa, dov’era Pellegrini? Il pressing alto di Frattesi e delle due ali costantemente saltato dal palleggio a uscire dalla propria trequarti degli iberici, palla velocemente sugli esterni senza nemmeno dare il tempo ai nostri di ripiegare. Pronti-via, nei primi 5 minuti già si era vista la fragilità organizzativa azzurra, alla quale non è stata trovata soluzione. Spalletti forse pensava di potersi giocare la partita alla pari, ma non è stato così, nemmeno lontanamente. La Spagna ha giocato da Spagna, l’Italia ha giocato da Italia che si crede la Spagna. Tutto qui.
Ora ci giochiamo la qualificazione contro una delle Nazionali europee più continue e temibili di questi anni, forse la squadra che dal punto di vista del palleggio, almeno a metà campo, più ricorda i nostri passati avversari. Modric, Kovacic e Brozovic non saranno al livello dei tre spagnoli, ma nemmeno da buttare. Ciò che manca ai balcanici è una fase difensiva solida (5 reti subite in due partite) e un centravanti che la butti dentro con continuità: queste le nostre speranze per farcela.