La linea che serve all'Europa sull'auto elettrica
Mentre l’Europa di Bruxelles cerca l’intesa per la nuova Commissione il tempo passa ed è sempre più urgente rivedere politiche e regole sul comparto automotive.
È di giovedì scorso la notizia che Bmw ha annullato un ordine da due miliardi di euro per le batterie dei veicoli elettrici siglato nel 2020 con il costruttore svedese Northvolt, ma ciò, seppure non rappresenti alcuna marcia indietro della casa sull’elettrico, è un segnale importante e dimostra le conseguenze di certe scelte ideologiche. Sia chiaro, la casa tedesca sta progredendo nell’elettrificazione della produzione lanciando due nuovi modelli di vettura a batteria (la berlina i1 e la crossover i2), ma la decisione di recedere dall’accordo con gli svedesi è stata presa in modo congiunto con quest’ultima con lo scopo di sviluppare insieme accumulatori di prossima generazione. Nel comunicato si legge: “Il gruppo Bmw continua ad avere un forte interesse a creare un produttore ad alte prestazioni di celle per batterie circolari e sostenibili in Europa”. Secondo i media tedeschi Northvolt non avrebbe potuto rispettare i tempi di consegna concordati nel contratto, accumulando un ritardo di quasi due anni e sviluppando una quantità di rifiuti imprevista. Bmw si è quindi rivolta a Samsung Sdi. In altre parole, quanto deciso e ipotizzato soltanto quattro anni fa oggi rappresenta una scelta impossibile da realizzare, segno inequivocabile che la tecnologia imposta dalla Commissione Ursula era del tutto immatura.
Non soltanto: le regole che l’Europa si è data contengono trappole a breve scadenza come quella del 2027 quando, stando ai programmi di Bruxelles, entrerà in vigore il nuovo sistema di tassazione delle emissioni di anidride carbonica previsto dalla versione 2023 dello Ets-2 (Emissions Trading System-2) e questo colpirà gli edifici ma anche i carburanti. Ancora non si sa di quanto sarà l’aumento, ma anche fossero dieci centesimi al litro – ma se ne paventano anche 35-40 - l’unico modo per scongiurare il salasso sarebbe bloccare il provvedimento oppure, ma è utopia, accelerare affinché i carburanti alternativi (gli e-fuel sintetici ed ecologici), risultino sufficientemente diffusi, quindi disponibili, e più economici. Ovvio che, nell’impossibilità di bloccare decine di milioni di vetture con motore endotermico entro pochi anni, per la politica fosse più facile aumentare i costi di esercizio a chi vuole tenersi l’auto con motore a benzina rispetto a far calare il costo di quelle a batteria, fattore che sappiamo però essere soltanto uno tra quelli critici della mobilità elettrica.
Lo Ets, inizialmente applicato alle industrie più inquinanti, è di fatto una tassa europea applicata prima della distribuzione che l’utente finale si trova a pagare. E la cosa che più stupisce è che sia stata pensata da un parlamentare della Cdu, quindi di centrodestra, il tedesco Pieter Liese che siede a Bruxelles dal 1994. Poco prima delle elezioni europee il presidente di Anfia, l’associazione della filiera automotive, Roberto Vavassori, aveva pubblicato un vero manifesto per evidenziare le priorità e le richieste delle imprese italiane per la nuova legislatura. Segnalando che a oggi manca ancora un piano europeo per la riconversione industriale, fatto che mette in pericolo le imprese italiane della componentistica automotive. In termini numerici si parla del 5,6% del Pil, di circa 240.000 lavoratori e di un ammontare del fatturato che supera i cento miliardi di euro. Vavassori all’inizio di giugno era stato molto chiaro: “L’80% delle regolamentazioni del settore automotive viene definito in Europa, pertanto, è fondamentale che gli eletti al Parlamento europeo siano consapevoli dell’importanza che i prossimi cinque anni avranno per la tenuta industriale e sociale dell’industria italiana della mobilità. Se vogliamo dare alle nostre imprese la possibilità di competere ancora a livello globale serve un approccio pragmatico e razionale nella regolamentazione”. Tradotto in pratica significa essere concreti nel fare cose come supportare gli investimenti in tecnologia, riqualificare intere generazioni di lavoratori mediante la formazione ma anche ridurre i costi dell’energia (e lo Ets-2 fa esattamente il contrario), quindi essere indipendenti nell’approvvigionamento delle materie prime. Che nel caso delle batterie è una filiera saldamente nelle mani cinesi dall’estrazione alla vendita.
Vero è che il nuovo europarlamento dovrà presto attuare il programma di revisione delle scadenze riguardanti i limiti al 2035 e 2040 per lo stop alla vendita di motori endotermici nell’Unione, ma come farlo non è ancora noto o, meglio, lo è soltanto nel dover giocoforza limitare l’invasione cinese con i dazi come ha annunciato, guarda caso soltanto due giorni dopo le elezioni, Ursula von der Leyen. Purtroppo, dover rimediare alla follia ideologica di voler bannare i motori a pistoni entro il 2035 è inevitabile quanto complicato. La carta giusta potrebbe essere la necessità di rendere nuovamente competitiva l’industria europea, come ha ribadito anche Mario Draghi nella relazione commissionatagli dall’Ecofin, oppure, dando un segnale in senso liberale, si potrebbe lasciare ogni nazione dell’Ue libera di decidere il suo calendario in base alle caratteristiche del territorio, del suo mercato e delle capacità di spesa dei cittadini. Se pensiamo agli Stati Uniti, c’è grande differenza tra l’ultra elettrificata California e la tradizionalista Alaska. Ma, appunto, questo sarebbe un atteggiamento liberale e negli ultimi anni l’Ue somiglia sempre più a una “Eurss”.