La colonna di Genova delle Brigate Rosse è stata l’alfa e l’omega della lotta armata
“Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse” (Einaudi), del genovese Sergio Luzzatto, docente di Storia moderna europea all’Università del Connecticut, esperto di Rivoluzione francese e storia del Novecento, è l’ultimo dei tre saggi finalisti (selezionati dalla giuria scientifica fra 110 opere in gara) della XI edizione del Premio Friuli Storia. Gli altri due sono quelli di Filippo Triola e di Fabio Todero. A decretare il vincitore sarà una giuria di 403 lettori, che può votare fino al 31 agosto. Cerimonia di premiazione a Udine il 26 ottobre.
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Chi, nella storia delle Brigate rosse, mise a segno il primo sequestro prolungato, quello del pubblico ministero Mario Sossi, nel 1974? Chi commise, nel 1976, i primi omicidi deliberati, colpendo il procuratore generale Francesco Coco e gli uomini della sua scorta? Chi compì, nel 1977, il primo attentato a un esponente politico del Pci, gambizzando il dirigente dell’Ansaldo Carlo Castellano? E chi, nel 1979, si rese responsabile del primo assassinio di un operaio e sindacalista comunista, Guido Rossa? Per queste reiterate domande, la risposta è la stessa: la “colonna” di Genova.
Ai primati genovesi nelle azioni politico-militari si affiancano poi quello nell’azione di contrasto al terrorismo rosso, con la «sanguinosa guerra privata» fra le Br e lo Stato democratico, e quello della crisi politica e morale della lotta armata: i funerali di Guido Rossa – spiega infatti Sergio Luzzatto – «finirono per essere anche i funerali delle Brigate rosse», il loro «suicidio politico».
Fra l’inizio del 1979 e l’inizio del 1980 le Br toccarono «l’apice della loro potenza di fuoco» ma, «sul piano dell’attrattiva politica e dell’insediamento sociale, perdere Genova significò davvero perdere tutto»: occorre allora riconoscere che Genova, città per eccellenza delle partecipazioni statali negli ambiti siderurgico, cantieristico e meccanico-nucleare, costituiva un banco di prova decisivo per le Br: o vincere lì e ovunque altrove, o perdere lì e ovunque altrove. Per questi e altri motivi, esposti con una scrittura esemplare, e concatenando una mole formidabile ed eterogenea di fonti, non escluse quelle orali, l’autore afferma che «ricostruire la vicenda delle Brigate rosse attraverso il prisma di Genova equivale a misurarsi con l’alfa e l’omega dell’intera storia».
Ebbene, all’«intera storia» delle Br il suo lavoro offre un contributo di alto spessore, intrecciando un filo conduttore biografico con una prospettiva corale di quegli «anni pieni di dolore e furore»: così lì definì Rossana Rossandra scrivendo nel 2010 a Luzzatto, e così egli ha efficacemente intitolato la sua ricostruzione che ha colmato una profonda lacuna, giacché la storia della colonna genovese delle Br non era ancora stata scritta; e molto resta ancora da fare sia «per le storie del brigatismo rosso un po’ dovunque in Italia» sia per altre «zone d’ombra».
«L’anno della svolta» è il 1974, quando nacque la colonna genovese e si scivolò, in particolare con gli omicidi di Coco (1976) e di Moro (1978), verso l’«attacco al cuore dello Stato». Nondimeno, si ha a che fare con una storia che Luzzatto scrive «partendo da lontano», anche precedentemente al 1970 e alle imprese della banda XXII ottobre (la primissima organizzazione armata italiana – genovese, guarda un po’ – di sinistra), perché «la storia deve iniziare dagli anni Sessanta» (al punto che le Br non compaiono fino alla metà del libro): una storia politica, sociale, culturale e collettiva della trasformazione di istanze che erano in gran parte emancipatrici, ma che dal 1969 in poi intrapresero una via diversa.
Si tratta di un percorso che l’autore ha compiuto «inseguendo» – scrive proprio così – le vicende di un protagonista di «una storia sfuggente, elusiva, quasi fantomatica», trascurato dagli storici e diventato dopo la sua morte «un personaggio letterario»: Riccardo Dura, per molteplici ragioni una figura chiave, il «terrorista perfetto» con la sua personificazione del ruolo di clandestino.
Ma intorno a Dura si dipana la storia di una Genova dai mille volti in un caleidoscopio di idee, luoghi, eventi e persone, una galleria di volti ritratti al tempo stesso con rigore di storico e pietas, nella convinzione che la storia vada studiata innanzitutto attraverso chi l’ha vissuta. Si va dal mondo dei marginali (sradicati, spaesati, discriminati in quanto figli di immigrati meridionali) via via fino alle élite intellettuali: in primis docenti universitari quali Gianfranco Faina ed Enrico Fenzi («bestie nere» del generale Dalla Chiesa) o medici come Sergio Adamoli. «Maestri» le cui parole, parafrasando Carlo Levi, «sono diventate pietre».