Germania in cattive acque
Alla fine l’espansione dell’impianto di autovetture Tesla a Grünheide, alle porte di Berlino, non si farà. Nulla di sorprendente se si considera che la casa di veicoli elettrici fondata da Elon Musk ha fermato anche i piani per la costruzione di nuove «gigafactory» in Canada e Messico. Il mercato dell’auto rallenta su scala globale e la Germania non fa eccezione. A preoccupare gli osservatori è però la circostanza che dal comune del Brandeburgo arrivi l’ennesimo segnale di stanchezza dell’industria tedesca; anzi, dell’intera economia. E non stiamo parlando questa volta dei dati «macro», ossia del debito e del deficit che crescono mentre il Pil è fermo o si contrae - questi numeri d’altronde riflettono quelli «micro» in forma aggregata.
Se prendiamo il polso alle aziende tedesche c’è poco da stare allegri. Lo scorso 8 agosto, per esempio, l’autorevole Istituto di Halle per la Ricerca economica (Iwh) ha pubblicato i dati sulle società di persone e sulle aziende non più in grado di onorare i propri debiti: ebbene, a luglio, scrive l’Ihw, il loro numero «è aumentato in modo sorprendentemente significativo e i fallimenti sono stati numerosi soprattutto nel settore manifatturiero». In soldoni, le aziende insolventi in Germania sono salite a quota 1.406, il livello più alto da dieci anni e superiore al picco dello scorso aprile. «Il valore» scrive anche l’Iwh, «è superiore del 46 per cento alla media di luglio dal 2016 al 2019, ovvero prima della pandemia da coronavirus».
Il giorno successivo, il 9 agosto, l’istituto Ifo di Monaco snocciolava dati poco confortanti sul settore edilizio, in teoria uno dei traini della domanda interna e di conseguenza del Pil. «La carenza di ordini nell’edilizia residenziale in Germania è aumentata di nuovo, come riportato del 51,3 per cento a luglio, rispetto al 50,2 per cento di giugno». Da cui il commento dell’economista dell’Ifo responsabile del settore, Klaus Wohlrabe: «Tutto ciò che non viene commissionato oggi non può essere costruito domani. Ciò si riflette anche nelle previsioni per il numero di edifici residenziali di nuova costruzione. Questi sono ben al di sotto dell’obiettivo del governo tedesco di costruire 400 mila unità all’anno».
Insomma, invece che crescere con forza sotto l’impulso di un governo che tre anni fa ha annunciato «più case per tutti», l’edilizia arranca strangolata da tassi di interesse troppo alti per il settore. Il 13 agosto, infine, ad andare a picco è stato l’indice Zew di fiducia degli investitori tedeschi, crollato ad agosto a 19,2 punti da 41,8 di luglio: un tonfo assai peggiore delle previsioni per un calo a 34 punti e il valore più basso negli ultimi sette mesi. Il 19 agosto, infine, l’indicatore Ifo sul clima nelle vendite al dettaglio a luglio ha chiuso a meno 25,4 punti, in calo rispetto a meno 19,5 di giugno. Traduzione: i rivenditori vedono nero. «Ciò rende meno probabile una significativa ripresa del settore delle vendite al dettaglio nella seconda metà dell’anno», commentava l’esperto di ifo Patrick Höppner.
Ultimi ma non meno importanti i dati usciti il 19 agosto sul commercio estero nei primi sei mesi del 2024: le esportazioni tedesche sono diminuite dell’1,6 per cento su base annua (ma quelle di autoveicoli sono andate giù del 2,4 per cento e quelle di prodotti chimici del 4,4 per cento) mentre le importazioni hanno subito un calo più sensibile pari a meno 6,2 per cento. L’economia della Repubblica federale, insomma, sta male. Ne è convinto Ulf Poschardt, direttore di Welt N24, il canale all news del quotidiano Die Welt. Secondo Poschardt, la notizia che la fabbrica di componenti automobilistiche ZF - sigla che sta per Zahnradfabrik (fabbrica di ingranaggi) di Friedrichshafen, fondata nel 1915 - abbia annunciato tagli al personale per 14 mila unità è il segno che la Germania è sulla via della deindustrializzazione, «che non è solo in pieno svolgimento, ma sta anche prendendo velocità». «È vero che il “sentiment” non è buono in molti settori», conviene parlando con Panorama Andreas Peichl, professore di Economia all’Università di Monaco e direttore del centro Macroeconomia e ricerche dell’Ifo. Quanto alla deindustrializzazione la sua analisi è più complessa. «La produzione industriale è certamente in lieve calo, specialmente nell’industria più energivora, ma quello che non è in calo è il valore aggiunto prodotto dalla stessa».
In sostanza, poiché dallo scoppio della guerra russo-ucraina il costo dell’energia è molto salito in Germania, alcune aziende fra le quali una multinazionale come Basf hanno modificato la propria struttura produttiva spostando le fasi di produzione a più alto contenuto energetico là dove l’energia costa meno - per questa industria si parla di Anversa (Belgio), dei Paesi Bassi ma anche degli Stati Uniti. «Ma alla fine del processo il valore aggiunto prodotto nella Repubblica federale non cambia». Per l’impresa che almeno in parte delocalizza cambia invece l’organizzazione dei macchinari, del capitale e della forza lavoro. Poiché da mesi gli economisti tedeschi concordano nell’affermare che i numeri dell’economia sono scadenti ma che tutto sommato il sistema regge perché il mercato del lavoro resta in salute, chiediamo a Peichl se c’è da preoccuparsi; ossia se il tasso di disoccupazione - al 6 per cento a luglio 2024 - stia per impennarsi. «Non ci sarà un’ondata di disoccupazione: abbiamo anzi una carenza di manodopera nell’industria con le aziende che si lamentano di non trovare personale qualificato. Piuttosto assisteremo a una ristrutturazione del mercato del lavoro». Un processo che passa anche dalla chiusura totale di alcune aziende mentre se ne apriranno di nuove.
«Un periodo di “distruzione creativa”» con alcuni che forse non riusciranno a trovare lavoro subito ma questo non è un motivo di preoccupazione». E allora quali sono i motivi di allarme degli economisti tedeschi? «Che oggi come oggi la Germania non appare capace di attrarre investimenti stranieri», risponde ancora lo studioso. «E non esiste un’unica spiegazione per il fenomeno, ma si tratta di una combinazione di cause: il costo dell’energia è molto salito; nel Paese c’è carenza di manodopera qualificata; poi la burocrazia: anziché diminuire, è aumentata». Peichel parla di un problema annoso, la cui punta dell’iceberg sono gli storici ritardi accumulati per la costruzione dell’aeroporto di Berlino o della stazione ferroviaria di Stoccarda, ma si tratta di un male diffuso. «Le infrastrutture», riprende, «sono vecchie e Deutsche Bahn in particolare è un disastro». Come se non bastasse, e qua il professore è d’accordo con il direttore della Welt N24, «c’è tutta questa spesa pubblica per trasferimenti sociali come le pensioni o il Bürgergeld (il reddito di cittadinanza della Germania, ndr) a detrimento degli investimenti pubblici». Per l’accademico poi non si tratta solo di investimenti mancati durante gli anni delle vacche grasse, e cioè dopo il 2010, «ma qua non sono state fatte neppure riforme strutturali: l’ultima degna di questo nome, quella dei sussidi Hartz, risale al 2002. Poi ci fu quella delle pensioni, la riforma Nahles del 2014, ma andava nella direzione sbagliata».
Gravi errori ormai metabolizzati, già ampiamente attribuiti agli esecutivi dell’ex cancelliera Angela Merkel. Ma il voto è insufficiente anche per il governo del cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz e del suo principale alleato, il ministro dell’Economia Robert Habeck dei Verdi. Peichl riconosce che il gabinetto rosso-verde-giallo ha aumentato gli investimenti «ma non tanto quanto necessario». Poi, però, lo critica per «aver messo molti soldi nel sistema del welfare, soprattutto sussidi abitativi e reddito di cittadinanza più alti, per renderlo ulteriormente generoso». Una scelta secondo l’accademico solo in parte giustificata dalla crisi energetica che si è abbattuta sulla Germania e sull’Europa all’indomani dell’invasione dell’Ucraina. Le risorse, insomma, ci sono ma non sono allocate nel modo migliore e Peichl invoca una riforma urgente delle pensioni che alleggerisca il carico del welfare sulla finanza salvo poi osservare che «già da ministro delle Finanze di Merkel, Scholz aveva fatto capire di non essere interessato alla questione». Sarà forse perché il partito socialdemocratico è tra i più votati fra gli ultra-45 enni e soprattutto fra chi ha più di 60 anni? Chissà. «Per natura sono un ottimista ma a questo punto possiamo solo sperare che il prossimo governo affronti finalmente e in modo radicale questi problemi».
In Germania le elezioni per il rinnovo del Bundestag sono in programma a settembre 2025. «Prima di allora c’è poco da aspettarsi» conclude il professore. Nel frattempo la Germania si fa ogni giorno un po’ più piccola. Nel 2022, la Repubblica federale era stata il primo «contributore» al bilancio dell’Ue con 19,7 miliardi di euro. Nel 2023 Berlino è rimasta prima a quota 17,4 miliardi e secondo una proiezione dell’Istituto dell’economia tedesca di Colonia (Iw), «poiché è già evidente che non ci si aspetta una ripresa economica nel Paese nemmeno quest’anno, si può presumere che il contributo netto tedesco diminuirà ancora una volta nel 2024».
Il piacere sottile e maligno per le disgrazie altrui è un sentimento ben inquadrato dalla lingua tedesca, tant’è che si dice Schadenfreude. Ed è curioso come i dati su una Germania che ogni giorno resta sempre un po’ più indietro facciano in queste settimane il paio con un’Italia economicamente più vivace come non si vedeva da tempo. Una coincidenza. Per il governo di Giorgia Meloni esibire numeri in crescita è certo motivo di orgoglio. Ma la presidente del Consiglio, e prima di lei le Camere del commercio e dell’industria, sanno bene che l’integrazione fra la nostra economia e quella tedesca è tale che sul medio e lungo periodo l’Italia ha poco da guadagnare da una Germania «inguaiata». Un’economia globalmente interconnessa, nel bene e nel male, funziona così.