Omicidio di Cilavegna, Massimo in lacrime davanti alla pm: «Quando sono entrato mio fratello era già morto»
CILAVEGNA. «Ho assistito al litigio, ma quando c’è stata l’aggressione ero in un’altra stanza: ho sentito un tonfo e mio fratello era a terra». Massimo Sgroi ha raccontato la sua verità alla pm Valentina Terrile tra lacrime e smorfie del viso di amarezza e incredulità. L’uomo, con a fianco l’avvocata Valentina Zecchini Vaghi, ha confermato il litigio, nato, come spesso accadeva da qualche settimana, per motivi legati alla convivenza.
Una coabitazione nell’alloggio ereditato dai genitori che era diventata difficile, sia con il fratello, che gli rimproverava di non avere un lavoro e di passare le sue giornate al bar del paese, sia con l’ospite, Giuseppe Di Stefano, l’amico della vittima, che ieri mattina, nella caserma dei carabinieri di Vigevano, non ha invece voluto rispondere alle domande della pm (l’uomo è difeso dall’avvocata Alessandra Zerbi di Gambolò).
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«Non ero d’accordo che lui venisse a vivere con noi, mio fratello me lo ha detto poche ore prima, quando ormai aveva deciso», ha spiegato Massimo Sgroi.
Entrambi si trovano ora in carcere con l’accusa di omicidio, anche se il loro ruolo specifico nella vicenda è ancora da chiarire.
Litigi continui
Nell’abitazione di via Dei Mille i litigi erano all’ordine del giorno e si erano intensificati soprattutto con l’arrivo in casa di Di Stefano, l’amico della vittima dal passato difficile: nel 2021 era finito nei guai per atti persecutori nei confronti della sua ex, a cui aveva anche incendiato il magazzino di materie plastiche dell’azienda dove la donna lavorava.
Per questa vicenda aveva dovuto scontare una condanna in carcere. Era uscito da un paio di mesi e aveva cercato un nuovo alloggio. Prima aveva abitato a Gravellona Lomellina, ma ora voleva restare a Cilavegna. Aveva così chiesto ospitalità all’amico, che si era offerto di aiutarlo.
Da luglio Di Stefano si era così trasferito nella casa di via Dei Mille, ma la sua presenza aveva complicato un equilibrio familiare già precario. Due settimane fa era stato proprio Giuseppe Sgroi, la vittima, a chiamare i carabinieri perché non riusciva a calmare il fratello.
Senza lavoro da anni
In casa lavorava solo la vittima mentre il fratello più giovane non riusciva da almeno quattro anni a trovare un’occupazione ed era seguito dai Servizi sociali del Comune. In passato aveva fatto qualche lavoretto, ma in nero. Anche le bottiglie di birra al bar del paese, il “Blue moon” di piazza Garibaldi, erano spesso pagate dalla vittima, che cercava il più possibile di aiutare come poteva il proprio familiare.
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Con il fratello discuteva proprio per questa condizione di vita, ma da qualche settimana a questo si era aggiunta la presenza di Di Stefano. «Non lo volevo in casa, non ero d’accordo che venisse da noi – ha spiegato l’indagato alla pm –. Però era amico di mio fratello, alla fine ha deciso lui. Non so come si erano conosciuti, ma da almeno otto anni erano amici».
Un’amicizia che aveva resistito anche all’urto dei problemi giudiziari di Di Stefano, finito in carcere per scontare una condanna per stalking e incendio doloso. Chi lo conosce lo definisce un uomo dal carattere difficile, «un attaccabrighe».
L’aggressione in casa
La discussione che ha portato all’aggressione mortale sarebbe scattata per recriminazioni varie sulla gestione della casa e sui soldi della spesa. L’ospite si lamentava dell’acquisto di cibo che poi spariva dalle dispense, mentre al 34enne veniva rinfacciato di vivere in una casa non sua. Martedì sera i tre avevano però mangiato insieme e la serata sembrava tranquilla. Dopo la mezzanotte la situazione è precipitata.